Sembrerebbe che basti aumentare gli investimenti pubblici per superare la cronica incapacità di crescere dell’economia italiana e la produttività stagnante; e che il vero problema siano i vincoli di finanza pubblica, che non permettono allo stato di finanziarli. Convincimento rafforzato dal Pnrr che ha permesso all’Italia una crescita superiore al trend negli ultimi due anni. Una convinzione che però varrebbe la pena mettere in discussione.

L’aggregato rilevante per l’accumulo del capitale sono gli investimenti totali, privati e pubblici: il ruolo di quelli pubblici non è solo quello di sopperire, aumentare o integrare quelli privati, ma anche quello di incentivarli o promuoverli.

Nell’ultimo decennio, gli investimenti fissi totali in rapporto al Pil (dati Ocse) in Italia sono stati mediamente pari al 17,8 per cento fino al 2020, per poi salire al 20,9 nel 2021 e 2022, grazie al Pnrr: in forte deficit rispetto alla media dell’Eurozona, rispettivamente del 21,1 per cento e del 22,2 nei due periodi. Tuttavia la quota degli investimenti pubblici sul totale in Italia negli ultimi cinque anni è stata del 13,15 per cento, perfettamente in linea con la media dell’area Euro, e pressoché costante nonostante il Pnrr.

Gli investimenti privati

Se ne conclude che in Italia sono carenti gli investimenti privati, non quelli pubblici, che in proporzione sono uguali al resto dell’Europa; e che la recente impennata di 3 punti percentuali nel tasso di investimento dovuta al Pnrr sia arrivato dagli investimenti privati, visto che il contributo dello stato alla formazione del capitale è rimasta costante nel periodo. Dunque, l’importante è la quantità complessiva di investimenti; e il problema, la carenza di quelli privati. Lo stato può aumentare il potenziale di crescita del Paese, ma gli investimenti pubblici sono solo uno degli strumenti, non la panacea.

I dati degli Stati Uniti sfatano un altro mito. Il rapporto investimenti/Pil è rimasto quasi costante nell’ultimo decennio, al 21,4, con solo un lieve aumento negli ultimi due perché, a differenza dell’Europa, il governo americano ha usato la finanza pubblica per contrastare gli effetti della pandemia sostenendo direttamente il reddito e i consumi dei cittadini.

Non è quindi vero che un’economia che basa la propria crescita sui consumatori investa di meno, visto che la sua quota di risorse destinata alla formazione del capitale negli ultimi dieci anni è simile alla media dell’Eurozona. E non è vero che il ruolo pervasivo dello stato in Europa significhi maggiori investimenti pubblici visto che, in media, il loro peso sul totale negli Usa (15,9) ha ecceduto di quasi tre punti quello dell’Eurozona.

Costo/opportunità

Ciò che conta negli investimenti non è tanto la sua percentuale sul Pil, ma la «redditività», definita in termini di maggiore crescita futura e produttività. Troppo spesso si valutano gli investimenti pubblici solo per il loro moltiplicatore sulla domanda aggregata: se lo stato spende 100 per costruire una galleria, il Pil cresce subito di 100, ma poi i salari pagati dal costruttore vengono spesi in beni di consumo e gli utili reinvestiti in macchinari e impianti, con un effetto che moltiplica il 100 iniziale.

Le opere però hanno una vita utile maggiore della durata dell’effetto moltiplicatore e sono finanziate con debito pubblico di lungo termine. Il «rendimento» dell’investimento pubblico va valutato pertanto nella sua capacità di generare crescita a lungo termine uguale o superiore al costo reale del debito.

Questo dovrebbe essere il primo criterio usato da ogni governo che decide gli investimenti pubblici, mentre invece troppo spesso hanno lo scopo primario di creare consenso: per esempio aumentare l’occupazione nel proprio bacino elettorale; o aumentare la propria visibilità politica con una grande opera, anche se con quelle risorse si potrebbero fare tanti investimenti di dimensioni contenute ma con un impatto complessivo sulla crescita maggiore.

Manca infatti la consapevolezza che ogni investimento pubblico ha un costo opportunità: date le risorse limitate, ogni investimento deciso ne preclude un altro. Vincoli e controlli imposti dalla Commissione per i fondi del Pnrr avevano proprio l’obiettivo di promuover trasparenza, metodo e rigore alle decisioni di investimento di soldi pubblici.

La delega

Altro problema è l’implementazione degli investimenti pubblici, evidenziati dai ritardi del Pnrr: anche il miglior investimento sulla carta diventa fallimentare se manca la capacità di progettare, appaltare e supervisionare i lavori. C’è poi la peculiarità italiana che lo stato delega, di fatto, gli investimenti alle sue molte imprese partecipate, giuridicamente private ma a controllo pubblico, anche per superare la propria incapacità di realizzazione.

Il forte aumento degli investimenti privati che si è registrato con il Pnrr è dovuto molto probabilmente a questo effetto di surroga. C’è però il rischio che l’interesse dello stato per un investimento, confligga con quello degli altri azionisti privati; o che si danneggi il contribuente con un investimento eccessivamente vantaggioso per l’impresa partecipata e il governo, suo azionista di maggioranza, che incassa lauti dividendi.

L’imponente programma del governo americano per promuovere con crediti di imposta la transizione ambientale e la re-industrializzazione del paese, in cui lo stato non decide quali specifici investimenti fare con i soldi pubblici, ma delega la scelta alle imprese private, in quanto meglio capaci di valutarne la redditività prospettica, limitandosi a definire le linee guida, ha messo in crisi il modello europeo, sia perché da noi le decisioni su come investire i soldi pubblici spettano agli stati membri, sia perché i crediti di imposta americani verrebbero considerati illeciti aiuti di stato.

Così le imprese europee corrono a investire negli Usa, e la Germania ha subito chiesto e ottenuto deroghe per finanziare massicciamente con soldi pubblici imprese straniere al fine di colmare il gap tecnologico in settori cruciali come i semiconduttori e le batterie. L’idea che debba essere necessariamente lo Stato a decidere quali siano gli investimenti da fare, appaltando poi la mera esecuzione al privato, andrebbe ripensata.

Contro il nazionalismo

Un investimento pubblico si differenzia dalla spesa corrente nella sua contabilizzazione perché l’impegno di spesa ha un impatto pluriennale sul bilancio della pubblica amministrazione. Questo non vuol dire che la «redditività» degli investimenti pubblici, come definita in precedenza, sia necessariamente superiore a quella della spesa corrente: non è detto per esempio che il ponte sullo Stretto abbia un impatto su produttività e crescita futura maggiore se il suo costo fosse utilizzato per un sistema di remunerazione premiante dei migliori medici, insegnanti, e ricercatori, per dotarli di fondi e strumenti per la ricerca e formazione, e per attirare talenti.

Infine, se la carenza di investimenti in Italia, pubblici e privati, è dovuta, come il Pnrr starebbe a dimostrare, a una mancanza di capitali, a un mercato finanziario asfittico e all’insufficiente capacità di investire dei privati, la soluzione ovvia sarebbe quella di incentivare l’afflusso di capitali e gli investimenti diretti dall’estero: l’opposto del dirigismo e nazionalismo del nostro governo.

Siamo l’unico paese Ocse, insieme alla Grecia, che negli ultimi 20 anni ha avuta una crescita zero del reddito medio pro capite (a potere di acquisto costante), rispetto a una media dello 0,8 per cento nell’Eurozona e dell’1,25 degli Stati Uniti. L’Irlanda col 4 per cento è il paese con la maggiore crescita nel ventennio (superata solo da Lituania e Lettonia).

Come? Incentivando l’afflusso del capitale estero con una tassazione favorevole del capitale. Alla fine però ci hanno guadagnato i cittadini irlandesi che vantano oggi un reddito pro capite doppio rispetto alla Germania, 70 per cento più elevato che gli Stati Uniti e 2,5 volte l’Italia. L’Italia non è l’Irlanda, ma qualche riflessione sul nostro dirigismo e nazionalismo si impone.

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