Per due volte consecutive, il 2 dicembre e ieri, l’assemblea dei soci dell’ex Ilva, Arcelor Mittal e Invitalia, non è riuscita a trovare un accordo sulla gestione della società. Lo stato tramite Invitalia ha investito nella società 400 milioni di euro che gli sono valsi il 50 per cento dei diritti di voto in assemblea e una quota di capitale di minoranza di circa il 38 per cento. Almeno fino ad inizio 2024, secondo gli accordi presi dal governo nel 2021, poi tra più di un anno dovrebbe salire al 60 per cento con un ulteriore investimento fino a 680milioni.

Nel frattempo però Acciaierie d’Italia è in una crisi di liquidità sbandierata e ha chiesto al governo Draghi un miliardo di euro, che la società lamenta di non aver ricevuto e che secondo il nuovo esecutivo dovrebbe almeno essere condizionato a un riequilibrio della governance. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha spiegato poche settimane fa che vorrebbe contare di più nelle decisioni sull’acciaieria, ma Invitalia in consiglio di amministrazione esprime il presidente, Franco Bernabé, che non ha poteri operativi.

Il risultato è uno stallo continuo che ha portato i sindacati a chiedere a più riprese la nazionalizzazione dell’acciaieria. E non solo i sindacati dell’ex Ilva e delle aziende dell’indotto tarantino, ma anche di società della filiera come Sanac – ex fornitore dell’ex Ilva, rimpiazzata con fornitori stranieri con cui l’ex Ilva non salda nemmeno i debiti.

Coincidenza vuole che proprio ieri, dopo che l’assemblea si è conclusa con un nuovo nulla di fatto tra Invitalia e Arcelor Mittal, il ministro Urso si è trovato a rispondere in audizione in parlamento sul programma del suo ministero e sulla crisi conclamata dell’impianto e ha ulteriormente complicato la questione.

Urso ha detto che lo stato non solo non vuole nazionalizzare come chiedono i sindacati, ma non è nemmeno «d’accordo con la statalizzazione» entro il maggio del 2024». L’obiettivo del governo, ha detto Urso, «è confrontarci con tutte le parti pubbliche e private per giungere a una soluzione che contempli una ricapitalizzazione dell'impresa, per avere le risorse ulteriori necessarie alla riconversione industriale del settore». Insomma, serve convincere il partner industriale a investire.

Lo «stato stratega»

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Urso ha proprio delineato durante l’audizione la sua idea del ruolo che lo stato deve avere in economia e lo ha definito «lo stato stratega», un suo pallino fin da quando era al Copasir. L’era della deglobalizzazione, ha spiegato il ministro, «necessita di uno stato stratega, non uno stato ideologico né mercatista né dirigista ma stratega, che indica le regole e che usa quando necessario il cosiddetto golden power, ma lo fa come previsto nell'ultimo decreto legge approvato giovedi scorso, non disinteressandosi del destino dell'impresa».

Il riferimento è alla raffineria di Priolo,per cui il governo è intervenuto in un contesto in cui però il problema era più il contesto internazionale che la capacità produttiva e industriale. Ora per Acciaierie d’Italia, lo stato stratega di Urso si prefigge di «mantenere e rafforzare la funzione strategica industriale siderurgica» e di «realizzare il piano siderurgico nazionale», che non è mai stato fatto. Tutto corretto. Solo che in Acciaierie d’Italia il socio privato ha appena chiesto finanziamenti al governo, e lo «stato stratega» da «non dirigista né mercatista» sta allo stesso tempo chiedendo di contare di più nelle decisioni. Intanto ieri nessun politico si è presentanto al tavolo di crisi della Sanac, una delle vittime collaterali della enorme crisi dell’ex Ilva. I primi passi dello stato stratega non hanno molta strategia.

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