Quella della Marelli - il maggiore produttore nostrano di componenti auto che di punto in bianco minaccia di mandare a casa 300 operai e di chiudere uno degli stabilimenti - è la storia di un’azienda italiana che ha smesso di essere italiana senza che (quasi) nessuno se ne sia accorto. È stata venduta alla fine del 2018 da Fca alla giapponese Calsonic Kinsei, a sua volta controllata dal fondo americano KKR, per 6,2 miliardi di euro, e oggi nel suo consiglio di amministrazione siedono solo membri stranieri. Che gestiscono, in un mercato globale, un Gruppo ormai mondializzato. Che non sembra avere particolare interesse ad attuare nel nostro Paese quella rivoluzione verde dell’industria automobilistica per la quale nessuno da queste parti si è battuto a sufficienza negli ultimi dieci anni.

Quella della Magneti Marelli, al di là della cronaca degli ultimi giorni, è insomma la storia di una serie di nodi mai sciolti che ora vengono al pettine e che nessuno può più fingere di non vedere. L’ultimo capitolo di questa vicenda si apre lo scorso 19 settembre quando ai delegati sindacali della Magneti Marelli, che si trovano a Roma per discutere con la proprietà il nuovo piano strategico, viene comunicato che l’azienda intende chiudere la fabbrica di Crevalcore, a trenta chilometri da Bologna, e licenziare in tronco tutti gli operai. Il progetto prevede di delocalizzare nella sede di Bari una parte della produzione, quella plastica, e di esternalizzarne un’altra, ovvero il reparto alluminio considerato eccessivamente energivoro e costoso.

Per i lavoratori bolognesi è una doccia fredda. Anche se lo schema è ultracollaudato: come già capitato altrove, ci sono una multinazionale, la promessa tradita di una transizione ecologica e centinaia di operai - 229 in questo caso, tra i quali più di venti appartenenti a stessi nuclei familiari - che da un momento all’altro potrebbero essere spazzati via. La partita è iniziata ma nessuno conosce ancora con precisione le regole di questo gioco: la procedura avviata per la chiusura di Crevalcore, attualmente solo sospesa, ha tempi relativamente lunghi, che avranno un ruolo determinante anche rispetto alla tenuta dell’unità e delle rivendicazioni operaie. Si tratta, per la precisione, di 180 giorni, durante i quali potrebbe ancora accadere di tutto.

Anche perchè non è ancora chiara la posizione del Governo Meloni. Di sicuro Palazzo Chigi potrebbe sfruttare una leva d’azione di non poco conto: il fondo KKR, infatti, mentre dismette uno stabilimento in Emilia Romagna sta tentando la scalata per l’acquisto di TIM. Il punto è: da che parte sta questa destra che più volte si è definita sociale? Non distuberà i manovratori, per non compromettere quell’altro affare, o dirà loro che un’azienda che svende il nostro patrimonio industriale non può essere ritenuta affidabile e quindi non può essere presa in considerazione per l’acquisto di un asset strategico come la rete di telecomunicazioni più estesa d’Italia?

Si scoprirà solo oggi, 3 ottobre, durante l’incontro fissato con la proprietà al MIMIT. Certo, se il Ministero del Made in Italy avvallasse una delocalizzazione sarebbe surreale. Ma il fatto che a beneficiare della chiusura in Emilia sarebbe, almeno in parte, un altro sito italiano, in Puglia, potrebbe anche creare uno strano cortocircuito. Mentre qualcuno fuori dai cancelli sussurra, più che con intento polemico come a voler esorcizzare una paura, che «a giudicare dal ritardo nell’erogazione dei fondi destinati agli alluvionati romagnoli non vorrei che ci usassero per fare uno sgambetto squisitamente politico alla regione che, almeno idealmente, rimane la più rossa d’Italia».

Tra gli operai, ancora increduli per le modalità in cui la situazione è precipitata, una delle domande più ricorrenti è appunto questa: perchè proprio Crevalcore? L’unica certezza, dicono i lavoratori, è che qui, a differenza che altrove nel Gruppo Marelli, finora si è fatto pochissimo ricorso alla cassa integrazione. Ma l’azienda ribatte che qui, dal 2017, c’è stato un calo di fatturato del 30% e che nei prossimi anni si potrebbe arrivare al 50. Il disavanzo tra questi due punti di vista lo compensa un non detto: il calo dei ricavi è strettamente legato alla mancanza di investimenti mirati alla transizione green. In altre parole, mentre il mercato globale dell’auto va in una direzione più sostenibile da un punto di vista ambientale, Marelli va contromano investendo in questo modo anche i diritti sociali.

«Senza contare - ipotizza uno dei lavoratori - che magari pensavano che la chiusura in un piccolo paesino della periferia più estrema della città metropolitana di Bologna non avrebbe suscitato molto clamore, che nessuno se ne sarebbe accorto o che non avremmo avuto la forza di lottare». Un altro invece ricorda che circa dieci anni fa, nell’era Fiat, c’è già stato un tentativo simile: «La sede di Bari è sempre stato il piano B di Crevalcore. Il 30 maggio 2012, all’indomani della seconda scossa di terremoto che mise in ginocchio l’Emilia, caricarono sui camion alcune nostre linee di montaggio per trasferirle in Puglia». Ufficialmente per motivi di sicurezza. Ma nel giro di un’ora 150 persone tra operai e cittadini si riunirono davanti ai cancelli dello stabilimento impedendo a chiunque di entrare o uscire.

Oggi, con l’immagine di quella giornata di forti tensioni ancora negli occhi, si comportano nello stesso modo: «All’interno della fabbrica si continua regolarmente a produrre ma non facciamo uscire il prodotto finito. Da qui non esce neanche un bullone. Anche se la nostra impressione è che avessero previsto il nostro blocco e che l’azienda si sia mossa con grande anticipo per contrastarlo, attrezzandosi per produrre altrove i nostri componenti». Ad alimentare la sensazione che la chiusura di questo stabilimento fosse già nei piani di KKR da tempi non sospetti, c’è il fatto che le linee per la produzione di motori adeguati agli standard Euro 7 (meno inquinanti, essenziali per la transizione verso una mobilità pulita), promesse nei mesi scorsi a Crevalcore nell’ottica di un rilancio, da queste parti non siano mai arrivate ma sarebbero finite invece proprio a Bari: «Da un punto di vista relazionale - commenta un delegato - questo è l’aspetto più sconfortante perchè significherebbe che ci hanno mentito ai tavoli sindacali».

E proprio a proposito delle relazioni sindacali c’è un altro punto particolarmente emblematico per capire quanto quello che accade oggi abbia radici profonde. Per inserire questo tassello nel quadro attuale occorre riavvolgere il nastro fino al 2010, quando si tiene l’ormai storico referendum di Pomigliano che un anno più tardi porterà alla firma del contratto specifico Fiat ad aziendam, il quale sancisce, per la prima volta, che ad avere agibilità sindacale in Marelli saranno soltanto le sigle firmatarie (cioè FIM, UILM e FISMIC con esclusione della FIOM). La vicenda Pomigliano, apparentemente così lontana nel tempo, si è chiusa in realtà solo molto di recente.

O almeno avrebbe dovuto. Nel 2018 infatti, quando FCA vende la Magneti Marelli alla Calsonic Kansei, rimane in vigore il vecchio contratto. Ma nella prima metà del 2023 si decide di far rientrare il Gruppo nel contratto collettivo nazionale di Federmeccanica. Dopo l’estate, cioè all’incirca in questi giorni, si sarebbero quindi dovuti eleggere i nuovi rappresentanti delle RSU: «dopo dieci anni si sarebbe dovuti tornare a relazioni sindacali normali, invece ci siamo ritrovati con la sorpresa della chiusura». Una sorpresa che però non ha colto impreparato un territorio in cui le reti di solidarietà si attivano quasi per istinto, in maniera immediata.

E questo fattore, nell’economia di un tempo in cui la condivisione e la mediatizzazione delle battaglie sociali è tutto, potrebbe influire sul risultato finale. Da dieci giorni, infatti, la Magneti Marelli di Crevalcore è meta di un pellegrinaggio laico: tanti i politici che hanno già fatto visita al presidio - e che però dovranno misurare la propria forza e far valere il proprio sostegno sui tavoli istituzionali - e tantissime le persone comuni. Bar, ristoranti e pizzerie inviano cibo e bevande. Amici, conoscenti e cittadini contribuiscono come possono. «A pranzo Frida e Giorgio ci hanno portato un’ottima pasta che hanno preparato a casa». «Una splendida Signora si ferma con l'auto e scende con una torta in mano. Si chiama Loretta, è il suo compleanno ci dice, compie 65 anni. Ci ha commossi perché la sua torta di compleanno l’ha voluta portare al presidio. Ha scelto noi, la nostra lotta, per condividere il suo giorno di festa».

E poi la gramigna di Pietro e di sua madre Leonarda: «Di solito quando faccio da mangiare mi sento in pace, mi rilasso e in qualsiasi situazione riesco a portare a termine il “servizio” senza farmi prendere dal panico. Oggi è stato diverso. L’ansia dell’acqua che non bolliva e che mi avrebbe fatto tardare, la paura che la gramigna non arrivasse calda e cotta al punto giusto…cuocere sui fornelli di casa per una quarantina di persone è sempre un terno al lotto. Per non parlare della prima raminata che ho messo nel piatto: la mano mi tremava al punto che ormai mi cascava tutto. Avevo 16 o 17 anni quando per la prima volta sono andato davanti a quei cancelli.» C’è, infine, la mobilitazione sui social network.

Francesco Di Napoli, meltalmeccanico alla Magneti Marelli di Crevalcore fino al 2015, poi distaccato in CGIL, racconta quotidianamente attraverso la sua pagina Facebbok cosa stia accadendo: «L’atmosfera, dentro, è di finta normalità, perchè di normale non c’è nulla. È un limbo dantesco, questa procedura di chiusura annunciata e poi sospesa, dove in teoria dovresti far finta di nulla e star lì, come se nulla fosse, fino all’ultimo giorno di lavoro. Che è quello che accadrebbe se non ci fosse un sindacato, una mobilitazione, una vertenza. Quello che in questo frangente non ci fa uscire fuori di testa è proprio la vertenza, questo collante che ci spinge a lottare insieme».

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