Mediaset for Europe (Mfe), Pirelli e Tim sono tre storie di aziende italiane dai marchi prestigiosi che però vivono da anni un lento declino, in cui il controllo societario prevale sulla ricerca di strategie per un rilancio. Lo dicono i numeri.

La valutazione che il mercato dà delle prospettive future di un’impresa è dato dal valore del rapporto tra capitalizzazione di mercato e patrimonio netto: quest’ultimo è la somma del capitale versato più gli utili reinvestiti ed è quindi la misura della redditività passata; la capitalizzazione di borsa è il valore attualizzato che il mercato attribuisce ai cash flow attesi in futuro.

Se questo rapporto è maggiore di 1, la redditività attesa futura del capitale è maggiore di quella passata, ovvero le prospettive di crescita sono migliori rispetto al passato; se è minore di 1, il mercato sconta una decrescita della redditività per mancanza di prospettive.

Ai prezzi odierni, il rapporto tra capitalizzazione e patrimonio netto di Pirelli, Mfe e Tim è inferiore all’unità (rispettivamente 0,8, 0,6 e 0,4) sulla base delle stime di consenso per il 2023. Un valore del genere è tipico delle banche durante i periodi di tensioni finanziarie per via del rischio sofferenze; ma è l’eccezione per le società non finanziarie.

Anche in Italia: la mediana del rapporto tra capitalizzazione e patrimonio per le cento maggiori società non finanziarie quotate è infatti pari a 2,1 (significa che metà delle società hanno un rapporto superiore a 2 volte); e 76 per cento di queste hanno un rapporto maggiore di 1. L’Italia è in linea con la media Europea, ma di molto inferiore al rapporto di 4 volte dell’indice americano per via della prevalenza di società tecnologiche.

È dunque evidente che Mfe, Pirelli e Telecom non sono state capaci di avvantaggiarsi della congiuntura che ha caratterizzato l’ultimo ventennio (globalizzazione, integrazione del mercato europeo con la moneta unica, e rivoluzione tecnologica) che, invece, è alla radice del loro declino.

Ne è conseguita una gigantesca distruzione di valore per chi ha investito in questi titoli: in vent’anni, Tim ha perso l’88 per cento; Mfe l’83; e Pirelli il 32 per cento, ma a partire da settembre 2017 quando è tornata in Borsa con i nuovi soci cinesi. E le analogie non finiscono qui: tutte e tre sono alle prese con il problema di perpetuare il controllo, in un malsano intreccio di rapporti con lo Stato.

Lunedì viene aperto il testamento di Silvio Berlusconi: la vicenda ha un grosso interesse mediatico, ma dal punto di vista finanziario cambia poco, perché i problemi del gruppo restano intatti. In un passaggio generazionale con almeno cinque eredi ci sono tre scenari: un erede, di solito con il sostegno di un private equity, si tiene l’azienda e gli altri ricevono liquidità (o, se le aziende sono più di una, alcuni se le spartiscono); tutti decidono di uscire e vendere; o rimane lo status quo, con una lunga coda di litigi.

Status quo

Si specula su cosa Fininvest potrebbe decidere circa la sua partecipazione in Mfe; che però ormai vale appena un terzo di quelle detenute in Mediolanum e Mondadori. Finanziariamente sarebbe quindi più rilevante chiedersi che cosa deciderà Fininvest per Mediolanum dove non esercita il controllo, pur essendo la sua attività di maggior valore.

Che sia il futuro della partecipazione in Mfe o in Mediolanum, la struttura proprietaria di Fininvest che si è venuta a creare evidenzia il problema della governance. Per esempio, chi prenderà le decisioni strategiche per Mfe, ammesso che trovi l’accordo e il sostegno degli altri eredi: Marina Berlusconi che comanda nella Holding azionista di controllo, o il fratello Piersilvio, azionista della Holding ma che comanda nella partecipata?

Quesito rilevante perché servirebbero chiare decisioni strategiche e notevoli investimenti per arrestare il declino di Mfe e convincere il mercato delle proprie prospettive di crescita. La tv generalista di Mfe, basata sui ricavi pubblicitari, applica praticamente lo stesso modello di business di trent’anni fa.

Nel frattempo, Mfe ha perso il treno della tv a pagamento, dello streaming, dell'integrazione verticale con la produzione di contenuti, dei social, senza contare la rivoluzione nella mercato pubblicitario con internet; e adesso sta arrivando il treno dall’intelligenza artificiale. Il rischio della complessa struttura proprietaria di Fininvest è quello congelare lo status quo, rendendo oltremodo difficili queste scelte.

Ma questo sembra essere lo scenario più probabile, almeno fino alle elezioni europee del 2024 secondo i commentatori politici, per poter sostenere la leadership di Giorgia Meloni in Italia e in Europa. L’azienda televisiva non ha un grande interesse a mantenere così stretti rapporti con la politica dopo la morte di Silvio Berlusconi.

A meno che Fininvest non voglia chiedere come contropartita un aiuto del Governo per superare l’ostacolo di Vivendi, che con il 23 per cento di MFE, e intenzioni poco amichevoli, blocca di fatto qualsiasi progetto, oltre a ridurre il flottante, penalizzando il titolo.

Un titolo già penalizzato dalla duplice tipologia di azioni voluta da Fininvest proprio per blindare il controllo dall’assalto di Vivendi: così le azioni per gli investitori (classe A) quotano a sconto del 26 per cento rispetto a quelle di tipo B, con maggiori diritti di voto. Ma Vivendi ha il 19 per cento della sua quota vincolato in una fiduciaria, grazie a un provvedimento dell’Autorità, per via della contemporanea partecipazione in TIM, di cui è azionista di maggioranza relativa, dove da tempo ha ingaggiato una lunga contesa per la vendita della rete.

Ma proprio giovedì scorso il Consiglio di Amministrazione di Tim ha deciso di aprire una trattativa in esclusiva col fondo KKR per la cessione della sua rete, che nelle dichiarazioni del Governo dovrebbe prima o poi essere strumentale alla realizzazione della rete unica a controllo pubblico, passando necessariamente per l’ingresso di Cdp, già socia di OpenFiber. E il Governo può sempre usare l’arma del Golden Power. Vivendi deve quindi negoziare su più fronti col Governo, che quindi ha un forte potere contrattuale, in un complesso intreccio di interessi tra Stato, Fininvest e Vivendi per questioni di controllo; che distoglie dal fatto che anche Tim è un’azienda in costante declino.

Voglia di dirigismo

Che il governo voglia usare la norma sul Golden Power per indirizzare la governance delle imprese private lo dimostra il suo utilizzo in Pirelli, che proibisce a Sinochem di interferire nelle decisioni operative della società, di influenzarne la governance, di decidere su operazioni straordinarie, di dare le deleghe esecutive e nominare il top management, espropriandola di fatto dai diritti che qualunque azionista di maggioranza relativa avrebbe.

La riduzione del rischio geopolitico della Cina è un obiettivo condivisibile ma non si capisce che cosa ci sia di strategico in pneumatici, sensori o geolocalizzatori (ormai presenti ovunque), né perché Pirelli sia diventata strategica oggi quando i cinesi sono soci dal 2015.

Sembra solo un pretesto per blindare il controllo di Tronchetti Provera, con il 14 per cento della sua Camfin, visto che fra tre anni, alla scadenza del patto, i cinesi avrebbero avuto mano libera nel nominare i vertici.

Il Golden Power dà infatti a Camfin il potere di nominare l’amministratore delegato, il direttore generale e tutti dirigenti apicali; e ci vogliono i 4/5 del consiglio per opporsi alle nomine proposte. Le deleghe rimangono a Tronchetti Provera visto che l’amministratore delegato designato a succedergli se ne è appena andato via da Pirelli.

Ma la norma richiede anche che i poteri di Camfin siano inseriti nello Statuto societario, ovvero valgano anche per chi dovesse subentrare a Sinochem, magari italiano, blindando di fatto il controllo di Tronchetti Provera in modo permanente.

La voglia di dirigismo del governo non finisce qui: e già si parla del Golden Power per la vendita degli impianti di Electrolux. Se per palazzo Chigi anche gli aspirapolvere sono diventati strategici per il Paese, siamo messi veramente male.

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