Con efficace sforzo di sintesi, Claudio Descalzi ha già spiegato il principio ispiratore della politica estera italiana verso il regime di Abdel Fatah al Sisi. Meno di un anno fa, parlando alla convention di Forza Italia, l’amministratore delegato dell’Eni osservò che l’Egitto, come Algeria, Mozambico e Congo, è un paese dove “se dai ricevi”.

Ebbene, Il Cairo molto ha ricevuto negli anni scorsi e molto di più riceverà grazie all’intesa siglata due giorni fa con l’Unione europea, un’intesa che vale 7,4 miliardi di euro. In cambio di questi aiuti, al Sisi si impegnerà a bloccare il flusso verso l’Europa di migranti, che è destinato ad aumentare per effetto dell’attacco israeliano alla striscia di Gaza.

Made in Italy

Dopo l’esperienza (non proprio fortunata) del viaggio a Tunisi a braccetto di Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni anche domenica si è ritagliata il ruolo di ambasciatrice informale della Ue verso la sponda sud del Mediterraneo. Al tavolo delle trattative si è parlato anche di made in Italy e la premier si è fatta garante con Il Cairo si una serie di intese nel nome del piano Mattei.

Poca cosa: si va dal supporto ai distretti della pelle, al credito per le piccole e medie imprese egiziane fino al generico sostegno dell’interscambio commerciale. La partita più importante, quella che davvero interessa al governo italiano come pure all’autocrate al Sisi, si gioca altrove. Vale miliardi di euro e si può riassumere in una sola parola: gas.

Per dirla con le parole di Descalzi, qui l’Italia deve dare molto per aspettarsi contropartite concrete. Negli ultimi anni il peso strategico dell’Egitto nel grande gioco del metano è aumentato in modo esponenziale. A spostare gli equilibri è stata l’uscita di scena quasi completa della Russia come fornitore, ma questo non basta a spiegare il nuovo scenario.

Il fatto è che a partire almeno dal 2015 si sono moltiplicate le scoperte di nuovi importanti giacimenti al largo delle coste egiziane e l’Eni è diventato il socio di riferimento per il Cairo in un business che vale miliardi di ricavi supplementari ogni anno.

Nel settembre scorso, per dire, Descalzi è volato nella capitale egiziana per incontrare al Sisi promettendo di investire 7,7 miliardi di dollari nell’arco di quattro anni. Una somma addirittura superiore ai 7,4 miliardi di euro messi sul piatto dall’Unione europea con l’intesa appena siglata da von der Leyen.

Rischio bancarotta

Va ricordato che l’Egitto è un paese sull’orlo della bancarotta, perennemente a caccia di prestiti per tamponare le falle nel bilancio statale. Con la crisi nel golfo Persico si sono di molto ridotti anche i transiti nel canale di Suez che garantiscono un flusso costante di valuta per il Cairo.

Al Sisi, quindi, non può fare a meno di spalancare le porte agli investitori stranieri. L’obiettivo, ovvio, è garantirsi nuovo ossigeno finanziario. Il ruolo dell’Eni è centrale in questa strategia. Il gruppo pubblico italiano è il capofila di un gruppo di grandi aziende petrolifere internazionali impegnate nello sviluppo di alcuni grandi giacimenti.

Il più grande di tutti, definito non per niente un “super giant field”, è quello di Zohr, 200 chilometri al largo della costa settentrionale dell’Egitto. Qui, insieme al gruppo pubblico italiano, che ha una quota del 50 per cento, partecipano al business con quote di minoranza anche la britannica Bp, il gruppo Mubadala di Abu Dhabi e i russi di Rosneft, che nel 2016, quando Mosca era già sotto sanzioni per l’invasione della Crimea, hanno rilevato il 30 per cento della società che gestisce Zohr. Nulla è cambiato con la guerra in Ucraina: la società guidata da Igor Sechin, sodale di Putin, è ancora azionista insieme ad Eni.

Le potenzialità del giacimento, in termini di gas ancora da estrarre, sono state più volte aggiornate al rialzo. Da principio si pensava che la produzione sarebbe stata destinata quasi per intero a soddisfare il fabbisogno egiziano nei prossimi decenni. Di recente, invece, i piani sono cambiati.

Una parte sempre maggiore del gas di Zohr, una volta liquefatto, potrebbe prendere la via dell’Europa e anche dell’Italia.

Nel frattempo, Eni si prepara a giocare nuove carte al tavolo del Cairo. Risale a gennaio dell’anno scorso una nuova scoperta nell’offshore egiziano, questa volta nel pozzo esplorativo Nargis, che verrà sfruttato insieme agli americani di Chevron, ma il gruppo guidato da Descalzi sta proseguendo l’esplorazione anche in altre zone grazie alle licenze ottenute dal governo di al Sisi.

Quanto basta per confermare il ruolo decisivo dell’Egitto per la crescita dell’azienda italiana controllata dallo Stato. Già nei primi nove mesi del 2023 (ultimi dati disponibili) il paese del Nord Africa era quello che pesava di più sul totale della produzione di gas dell’Eni, davanti anche ad Algeria e Libia.

Nuovo scenario

La questione si complica se si allarga lo sguardo al quadrante più orientale del Mediterraneo, tra Cipro e Israele. In questa zona sono stati scoperti giacimenti importanti, in parte anche da Eni, tanto che era nato il progetto di un gasdotto, l’EastMed, per portare il gas verso le coste italiane.

Tutto è rimasto sulla carta, dapprima per l’opposizione della Turchia, che reclama diritti sulle acque cipriote e adesso per la guerra in Palestina. Poi, poco più di un mese fa, si è saputo che in autunno il governo israeliano aveva concesso licenze per l’esplorazione alla ricerca di gas ad alcuni gruppi petroliferi, tra cui l’Eni.

Parte di queste concessioni riguardano un’area di fronte a Gaza, che è rivendicata dallo stato palestinese. La guerra complica una questione già controversa e soprattutto costringerà l’Eni a rivedere i suoi obiettivi di espansione dall’Egitto verso est, con l’obiettivo di consolidare la sua posizione dominante in quell’area. Se ne riparlerà più avanti. Forse.

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