Chi ha capito la situazione più di tutti sono i lavoratori. Nell’accordo firmato dal Monte dei Paschi di Siena con i sindacati ad agosto erano previsti 3.500 esuberi. Il piano industriale presentato a fine giugno ne prevedeva quattromila entro la fine dell’anno, con l’obiettivo di abbassare il rapporto costi/ricavi di oltre il dieci per cento entro il 2024, ma le adesioni sono state ancora più del previsto: oltre 4.100. Si salvi chi può.

L’aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro che la banca deve realizzare entro il 12 novembre, pari a poco meno di dieci volte la capitalizzazione attuale di Mps, è un passo obbligato, difficilissimo, ma non risolutivo per la banca più antica del mondo che da sei mesi a questa parte in Borsa è diventata il fantasma di sé stessa e che nel giro di due o tre anni dovrà comunque trovare uno o più acquirenti.

All’amministratore delegato, Luigi Lovaglio, è toccata un’impresa improba: chiedere a investitori privati di sborsare centinaia di milioni di euro per diventare azionisti di un istituto che ha perso in un semestre il 70 per cento del suo valore sul mercato, che di milioni fino a ieri ne valeva meno di 250, e che con tutta probabilità passerà di mano. Peraltro, sotto un governo trainato da un partito, Fratelli d’Italia, che non vede certo di buon occhio le partecipazioni di investitori stranieri, peggio francesi, nel sistema finanziario italiano.

Disponibili ma non troppo

L’unica certezza fino a pochi giorni fa erano gli 1,6 miliardi che lo stato azionista era pronto a iniettare ancora una volta nel pozzo Mps. Nelle settimane passate erano emerse le disponibilità delle fondazioni bancarie toscane, investitori in buoni rapporti con Lovaglio dai tempi del Creval (francesi come Dumont) e di fondi come Algebris per 50 milioni di euro.

Senza la sicurezza della copertura di buona parte dell’aumento, però, le banche del consorzio di garanzia disponibili ad acquistare il capitale inoptato – non tanto i garanti Mediobanca, Credit Suisse, BofA Securities, Citigroup, ma soprattutto Santander,  Barclays,, Société Générale e Stifel – la garanzia non erano più disposte a darla. Partner commerciali come la compagnia assicurativa francese Axa hanno dato la disponibilità per oltre cento milioni, ma altri come Anima Holding hanno chiesto in cambio di rafforzare gli accordi commerciali con la banca, rischiando di creare nuovi ostacoli alla fase due del percorso: trovare un acquirente. Il compromesso è stato trovato abbassando il contributo a 25 milioni di euro. E ieri Piazza Affari ha festeggiato le indiscrezioni che arrivavano da Siena Come ha fatto sapere la banca in una nota diffusa stamattina, infatti, le banche hanno sottoscritto contratti di garanzia fino ad un ammontare massimo complessivo pari a 807 milioni. Assieme agli impegni scritti da altri investitori si arriva a 857 milioni di euro garantiti. L’aumento si farà. Ma è solo l’inizio: anche per il governo di Giorgia Meloni, come per i suoi predecessori, Mps resterà una questione aperta.

Il nuovo governo

L’aumento di capitale si realizzerà mentre il nuovo esecutivo si insedia. Della cifra complessiva, ben 800 milioni di euro vanno a pagare gli scivoli per i prepensionamenti, a cui sono legate le previsioni di taglio dei costi. Se si accogliessero tutte le richieste, i costi lieviterebbero probabilmente attorno a 950 milioni di euro. Il resto serve a rafforzare la patrimonializzazione, pericolosamente sotto i requisiti chiesti dalla Bce, mentre poco più di 300 milioni andranno in investimenti tecnologici.

Mps deve in ogni caso diventare più piccola, tagliare sportelli, 150 almeno secondo il piano industriale, anche per diventare più digeribile per l’operazione di fusione, acquisizione o spezzatino che prima o poi andrà fatta sotto il governo che verrà.

A inizio settembre, poi, la banca ha ricevuto anche la notifica di chiusura indagini da parte della procura di Milano sull’inchiesta sui presunti crediti deteriorati non contabilizzati nei bilanci precedenti al salvataggio dello stato di fine 2016. Secondo l’ultima consulenza tecnica chiesta dai pubblici ministeri, nel bilancio 2016, l’anno in cui Mps ha tentato e fallito l’aumento di capitale assicurato più volte dal governo Renzi, sarebbero mancate svalutazioni per 33,8 milioni di euro. E l’istituto rischia di essere chiamato a rispondere di responsabilità amministrativa.

Meloni può sicuramente non interessarsi del fatto che l’atto di chiusura indagini sia stato recapitato, tra gli altri, anche all’ex amministratore delegato Alessandro Profumo, oggi amministratore di Leonardo. Il nuovo esecutivo è desideroso di mandarlo a casa esercitando il suo potere di nomina, ma in ogni caso sarà costretto a mettere le mani sul dossier Mps. L’unica cosa che Lega e FdI non possono permettersi è rimangiarsi anni di propaganda contro gli investitori stranieri: la soluzione sarà con banche italiane pubbliche o private. Poi c’è sempre la via già percorsa da Mario Draghi, tenersi alla larga dal Monte dei Paschi e lasciare che se ne occupi il capo gabinetto del Mef, chiunque egli sia.

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