Dopo tre anni di quasi inazione, e qualche mese di frenetiche trattative, i ministri dell’economia europei hanno finalmente partorito un accordo per la riforma del patto di stabilità che, dopo essere stato sospeso nel 2020 durante la pandemia, va in pensione con il 2023.

Si potrebbe a prima vista pensare, guardando al balletto di percentuali, clausole di salvaguardia, classificazioni, che si tratti di un tema tecnico, per addetti ai lavori. Nulla di più errato.

Quello che era in gioco, nel negoziato dei mesi scorsi, era il quadro all’interno del quale i paesi europei dovranno operare nei prossimi anni per far fronte alle sfide che li attendono. Poche cose oggi sono più rilevanti. Per questo, l’accordo raggiunto prima di Natale in una corsa contro il tempo per evitare il ritorno alle vecchie regole, è una pessima notizia. Un ritorno al passato che condanna la già malconcia Europa all’irrilevanza.

Un mondo antico

Il vecchio patto che va in soffitta era quasi unanimemente criticato. In primo luogo, perché barocco e basato su di una pletora di indicatori, alcuni arbitrari e difficili da calcolare; poi perché orientato, con l’enfasi su obiettivi annuali uguali per tutti, verso la disciplina di breve periodo (con l’effetto di essere prociclico, vale a dire di spingere a manovre restrittive quando c’era bisogno di sostenere l’economia); infine, perché sfavorevole all’investimento pubblico, un problema particolarmente sentito in un momento in cui bisogna programmare un futuro sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Soprattutto, il vecchio Patto era figlio della concezione del mondo dominante negli anni Novanta, per cui il ruolo dello Stato nell’economia doveva essere ridotto, tra l’altro legando le mani alle politiche di bilancio con regole restrittive, per lasciare mano libera a mercati presunti efficienti.

Quel mondo non è mai esistito, e dopo le multiple crisi che ci hanno afflitto dal 2008 in poi, sembravano essersene accorti anche economisti e decisori politici. La crisi del 2008, la calamitosa gestione della crisi dell’euro, la pandemia e infine l’inflazione, hanno mostrato che non vi possono essere stabilità e crescita senza politiche di stabilizzazione, senza livelli adeguati di beni pubblici come la sanità e l’istruzione, senza politiche industriali e investimenti pubblici per le transizioni ecologica e digitale. Senza un ruolo attivo dello Stato nell’economia, insomma.

Questo spiega l’apertura, nel 2020, del cantiere della riforma del Patto di Stabilità che, sia pur nell’indifferenza dei governi nazionali, ha occupato gli economisti europei e i tecnici della Commissione, convinti che occorresse una riscrittura radicale delle regole e un cambio di filosofia. La nuova regola, era opinione condivisa, avrebbe dovuto cambiare approccio e mettere al centro della scena il recupero di uno spazio di manovra per le politiche di bilancio (pur garantendo, ovviamente, la sostenibilità delle finanze pubbliche). Un cambiamento di filosofia presente nella sia pure imperfetta proposta di riforma avanzata nel 2022 dalla Commissione europea, che abbandonava gli obiettivi annuali uguali per tutti in favore di piani di medio periodo concepiti dai paesi di concerto con la Commissione, in un quadro che garantisse la sostenibilità del debito e una (ancora troppo) moderata protezione dell’investimento pubblico.

In estrema sintesi, al centro del quadro proposto dalla Commissione era un’analisi probabilistica della sostenibilità del debito che tenesse conto delle caratteristiche specifiche dei paesi e dell’incertezza radicale (quindi ineliminabile) sulle diverse determinanti della dinamica del debito. Un’analisi per sua natura imperfetta e dipendente dalle ipotesi (e quindi in qualche modo dalle preferenze politiche di chi le faceva), ma sicuramente un passo avanti importante rispetto all’idea precedente per cui l’unico metro di sostenibilità fosse la riduzione del debito senza se e senza ma. Nella proposta l’analisi di sostenibilità serviva poi da base per un processo pluriannuale di aggiustamento, preparato dallo Stato membro, con l’obiettivo volutamente non quantificato di mettersi su di una traiettoria ragionevole di riduzione del debito. In caso di importanti piani di investimento e di riforme, i paesi potevano anche negoziare un’estensione del periodo (da quattro a sette anni) su cui definire il piano.

Un cambio di filosofia necessario e mancato

Quell’impianto è ancora presente, ma è ormai un guscio vuoto. Sulla carta, i piani pluriannuali e la protezione dell’investimento esistono ancora. Ma la Germania, tornata alla vecchia ossessione per l’austerità, ha imposto una pletora di complesse clausole di salvaguardia che scatteranno in caso di debito o disavanzo eccessivi (cioè quasi sempre e per quasi tutti) e che, indipendentemente dai piani concordati con la Commissione, tornano ad imporre vincoli numerici annuali, uguali per tutti. Ad esempio, un paese con un debito superiore al 90% del Pil, indipendentemente da qualunque altra considerazione, deve ridurre il rapporto di almeno un punto all’anno in media. Insomma, il nuovo sistema è barocco ed estremamente complesso (forse ancora più della vecchia regola), recupera indicatori problematici come il disavanzo strutturale, difficile da calcolare e oggetto in passato di estenuanti negoziati tra la Commissione e i paesi membri. Non è chiaro nemmeno agli addetti ai lavori come questo reticolo di vincoli e imposizioni siano compatibili tra loro. Quello che è chiaro è che essi rendono completamente irrilevanti i piani pluriannuali, specifici e di cui il paese in teoria ha la titolarità. Come nel vecchio Patto, insomma, one size fits all. Soprattutto, il cambiamento di filosofia che era il pregio maggiore della proposta della Commissione è stato completamente cancellato: la riduzione del debito è ancora l’alfa e l’omega del quadro che regola le politiche economiche dei paesi, e non è un caso che tutti i governi detti “frugali” si rallegrino del fatto che la nuova regola sarà più efficace della vecchia nel garantire la disciplina di bilancio.

La miopia di Francia e Italia

In questo quadro governi italiano e francese, i soli che avrebbero potuto spalleggiare la Commissione e aiutarla a proteggere l’impianto della sua proposta, si sono accontentati di negoziare un po’ di flessibilità di breve periodo, per poter arrivare alle rispettive elezioni con qualche baiocco da spendere. Una strategia miope e deprimente: le elezioni e questi governi passeranno, ma la regola resta e ci legherà le mani a lungo, mentre Cina e Stati Uniti fanno colossali investimenti sul futuro. Ogni governo può legittimamente stabilire le proprie priorità. Basta che chi oggi grida vittoria non venga tra qualche anno a stracciarsi le vesti quando l’Europa sarà diventata ancora più irrilevante di quanto non sia oggi.

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