Il boom della Spagna è firmato dalle donne, l’Italia la imiti e investa su asili e più giovani

Negli ultimi due anni la Spagna si è distinta come una delle economie più dinamiche dell’Unione europea. Secondo i dati dell’Instituto Nacional de Estadística, il Pil reale è cresciuto del 2,7 per cento nel 2023 e del 3,2 per cento nel 2024, con una successiva revisione al rialzo fino al 3,5 per cento. Nello stesso periodo, l’area euro è rimasta sotto l’1 per cento di crescita, mentre l’Italia si è fermata tra lo 0,5 e lo 0,7 per cento. Questa divergenza non può essere liquidata come un semplice rimbalzo post-pandemico. La crescita spagnola si è consolidata in una fase di rallentamento europeo generalizzato ed è stata accompagnata da un rafforzamento strutturale del mercato del lavoro. In particolare, l’espansione dell’occupazione ha raggiunto livelli storicamente elevati, diventando uno dei principali motori della crescita. Più occupazione, meno futuro: è il paradosso italiano del lavoro Il contributo femminile All’interno di questa dinamica complessiva, l’occupazione femminile ha svolto un ruolo rilevante. Non tanto per un aumento dei tassi aggregati nella fascia 20–64 anni, quanto per il contributo fornito alla crescita dell’occupazione complessiva e per la sua composizione per età. Nel 2024 il tasso di occupazione femminile nella fascia 20–64 anni si colloca in Spagna intorno al 65 per cento, un valore intermedio tra la media dell’Unione europea (70,8 per cento) e l’Italia (57,4 per cento). Ma è guardando sotto la superficie dei dati aggregati che emerge il vero punto di forza del modello spagnolo (Eurostat, Labour Force Survey, rif. 2024, rielaborazioni per sesso e classe d’età). Tra il 2019 e il 2024, infatti, l’occupazione femminile in Spagna è cresciuta soprattutto nelle età centrali del ciclo di vita, tra i 25 e i 44 anni. In questa fascia, cruciale dal punto di vista macroeconomico perché concentra competenze consolidate e maggiore continuità lavorativa, l’aumento è stato di circa sei punti percentuali, a fronte di un incremento di circa tre punti nella media europea e di poco superiore ai due punti nel caso italiano. È qui che la Spagna converge rapidamente verso i livelli Ue, mentre l’Italia resta bloccata. Dal punto di vista economico, la differenza è tutt’altro che marginale. Le analisi della Commissione europea mostrano che, nella fase post-pandemica, la crescita è dipesa soprattutto dall’espansione dell’occupazione, più che da aumenti della produttività. Ma nel caso spagnolo questa espansione non ha significato più lavoro qualsiasi: ha significato più lavoro stabile, concentrato nelle età centrali e quindi più produttive, e meno dipendente da forme precarie. La legge di Bilancio premia la famiglia. Ma solo quella che piace alla destra Una scelta precisa L’aumento dell’occupazione femminile, sostenuto da queste condizioni, non è stato un effetto collaterale della ripresa, ma una precisa scelta di politica economica. In questo quadro, è da rilevare come l’incremento dell’occupazione femminile nelle età centrali abbia inciso direttamente sul rafforzamento della capacità produttiva del paese e sulla tenuta della domanda interna. Il contributo femminile non è stato dunque solo quantitativo. In altre parole, non si è trattato di una crescita fondata su occupazioni precarie o marginali (come accade in Italia, ahimè), ma di un aumento dei contratti reali e stabili in particolar modo, ripetiamo, del lavoro femminile, capaci di rafforzare i redditi, sostenere i consumi e ampliare la base delle entrate pubbliche. Questi risultati non sono il frutto del caso. Negli ultimi anni la Spagna ha introdotto un insieme coerente di politiche pubbliche a sostegno dell’occupabilità femminile, che hanno agito simultaneamente non solo sul lavoro, ma anche su welfare e organizzazione sociale della cura. L’investimento nei servizi educativi per la prima infanzia è stato decisivo. Questo ha ridotto il conflitto tra maternità e lavoro proprio nelle età più produttive. I nuovi obiettivi europei fissano al 45 per cento la partecipazione dei bambini sotto i tre anni ai servizi educativi entro il 2030; già oggi, però, la Spagna presenta livelli di utilizzo elevati raggiunti con maggiori investimenti (copertura/offerta complessiva 0–3: intorno al 45 per cento, in linea con i target europei, anche se con forti differenze territoriali), con una partecipazione ai servizi per l’infanzia nettamente superiore a quella italiana, dove, anche a piano nidi del Pnrr quasi completato, la copertura dei posti si attesta intorno al 28 per cento dei bambini sotto i tre anni, con divari territoriali ancora molto marcati. Arianna è la “femminista” di cui Giorgia Meloni ha bisogno Un tempo scolastico migliore A questo si affianca in Spagna un investimento più consistente sull’organizzazione del tempo scolastico, attraverso una maggiore diffusione del tempo pieno e dei servizi educativi integrativi (da noi entrambi carenti, soprattutto sul piano della distribuzione territoriale nazionale a svantaggio delle aree maggiormente deprivate dal punto di vista socioeconomico e culturale). Si tratta di un fattore cruciale non solo per i risultati educativi del capitale umano, ma anche per l’autonomia femminile: un tempo scuola più esteso e affidabile rende infatti compatibili tempi di lavoro e tempi di vita, riducendo il carico di cura informale che continua a gravare in larga misura sulle donne e rafforzandone la permanenza nel mercato del lavoro lungo l’intero ciclo di vita. In Spagna la crescita dell’occupazione femminile si è accompagnata soprattutto alla riforma del mercato del lavoro del 2021, che ha inciso in modo significativo sulla struttura dell’occupazione, riducendo la segmentazione contrattuale e limitando il ricorso sistematico al lavoro temporaneo. La riforma ha ristretto l’utilizzo dei contratti a termine alle sole esigenze effettivamente temporanee, rafforzato il contratto a tempo indeterminato e incentivato la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, intervenendo su uno dei principali fattori di precarietà che colpiscono in misura sproporzionata le donne. In un contesto meno duale, la scelta della maternità comporta minori rischi di uscita definitiva dal mercato del lavoro e risulta più agevole mantenere continuità occupazionale, con effetti positivi sulle traiettorie lavorative lungo l’intero ciclo di vita e, da segnalare, con segnali iniziali di ripresa della natalità, la cui effettiva tenuta potrà essere valutata nei prossimi anni. «Le donne sono stanche»: così la scarsità di tempo produce e propaga il gender gap Confronti con l’Italia Il confronto con l’Italia mette in luce, per contrasto, una crescita mancata. Nel nostro paese l’aumento dell’occupazione femminile, comunque più contenuto rispetto a quello spagnolo, si concentra prevalentemente nelle età 50–64 anni, come effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile e della necessità economica di prolungare la vita lavorativa. Al contrario, le donne tra i 25 e i 44 anni continuano a registrare tassi di occupazione molto bassi, in particolare nel Mezzogiorno, dove restano sotto il 50 per cento cento e scendono intorno o sotto il 45 per cento in regioni come la Sicilia. Questa stagnazione non è il risultato di una scelta individuale, ma il riflesso dell’assenza di politiche pubbliche strutturali paragonabili a quelle adottate in Spagna. In Italia la carenza di servizi per l’infanzia, la limitata diffusione del tempo pieno scolastico e la persistente precarietà del lavoro femminile continuano a rendere incompatibili lavoro e maternità nelle età centrali. Al posto di interventi di lungo periodo, si è fatto ricorso a misure frammentarie e temporanee, spesso sotto forma di bonus, che non incidono sull’organizzazione del lavoro e della cura. Emblematico è il fatto che l’ultima legge di bilancio introduce incentivi di verso opposto alle politiche spagnole, che premiano il ricorso al part-time, una soluzione che finisce per penalizzare soprattutto le donne, riducendone redditi, carriere e contributi, senza affrontare le cause strutturali della loro esclusione dal mercato del lavoro. Le ragazze (non) stanno bene: «Meloni, come molte donne di destra, rappresenta il suo successo come un’avventura individuale» In questa direzione, manca una strategia coerente e lungimirante per l’occupazione femminile, capace di trasformare la crescita in partecipazione e lavoro stabile. Una mancanza che pagano fortemente il sistema paese e la crescita collettiva. Secondo stime Ocse e della Commissione europea, il mancato utilizzo del lavoro femminile rappresenta per l’Italia una perdita significativa di crescita potenziale, pari a diversi decimi di punto di Pil all’anno. Nel tempo, questa rinuncia si traduce in minore produttività, finanza pubblica più fragile e disuguaglianze territoriali persistenti. Il caso spagnolo mostra dunque che l’occupazione femminile non è una questione settoriale o solo redistributiva. È una leva macroeconomica centrale. Dove le politiche pubbliche rendono compatibili per le donne lavoro e vita, la crescita segue. Dove questo non accade, come si sta verificando adesso in Italia, il rallentamento non è un destino inevitabile, ma una scelta politica implicita.