Fratelli d’Italia ha accusato il governo uscente di ritardi nella realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, dicendo che la colpa ricadrà sul futuro governo, ancora da formare, quando ancora il capo dello stato non ha dato nessun incarico, seppure Sergio Mattarella e Giorgia Meloni si siano sentiti al telefono nei giorni scorsi. E bastano 24 ore alla leader di Fdi per fare marcia indietro: ieri Meloni ha detto che «non c’è nessuno scontro con il premier» Mario Draghi, ma che sul Pnrr «si può fare meglio».

I ritardi di cui parla Meloni sono le spese non realizzate legate al Recovery Plan, cioè i cantieri che non si sono aperti, non producendo spesa e riducendo di conseguenza la crescita del Pil per l’anno in corso e per il 2023. Mentre sui traguardi da cui dipende l’esborso dei fondi europei – il cronoprogramma che ogni sei mesi, se rispettato, ci permette di incassare decine di miliardi di euro – il governo uscente sta correndo per consegnare al prossimo esecutivo più della metà degli obiettivi fissati per il 31 dicembre. Gli obiettivi, in questa fase del piano, dipendono molto dal lavoro dei ministeri, perché sono nel complesso la parte legislativa che sta a monte del Piano di ripresa e resilienza. La parte più difficile, però, è lo sviluppo che coinvolge enti locali, stazioni appaltanti e giù a cascata, quello che con pessima espressione viene chiamato “sistema paese”.

Niente monitoraggio

Visto che, a due anni dall’inizio di tutto il percorso del Recovery Plan, non c’è ancora un sistema di monitoraggio trasparente, chiaro e accessibile, dell’avanzamento di tutti i lavori, per avere la mappa degli obiettivi raggiunti bisogna attendere la relazione del governo. Così come abbiamo dovuto attendere la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) per avere un quadro dei ritardi e dei miliardi non spesi.

«Il più recente aggiornamento delle proiezioni di spesa pubblica attivata dal Pnrr con le risorse del Recovery and Resilience Facility (Rrf) riduce significativamente la stima relativa al 2022, ma incrementa corrispondentemente le proiezioni di spesa negli anni finali del piano». Cioè abbiamo speso meno del dovuto finora, ma quelle spese sono destinate a gonfiare il Pil dei prossimi anni, quindi quei ritardi di cui Meloni si lamenta faranno comodo formalmente nei conti proprio a Meloni e, se il suo governo durerà, soprattutto negli anni a venire.

Nel 2022 dovevano essere spesi 29,4 miliardi di euro, invece ne sono stati spesi solo la metà: quindici. Nel 2023 saranno investite risorse del Recovery Plan pari a 40,9 miliardi, invece dei 43,3 miliardi previsti nel Def del 2022.

Spesa dimezzata nel 2022

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Nel 2024 46,5 miliardi invece dei 47,4 previsti. Le spese rinviate oggi, quindi, saranno recuperate domani, almeno nelle attuali previsioni: questo significa che, se tutto va bene, nel 2025 verranno spesi 6,1 miliardi in più, per un totale di 47,7 miliardi e, infine, nel 2026 da 25,5 miliardi di euro si passerà a 35,9 miliardi. Il risultato, spiega il documento del governo, è che nel 2023 gli investimenti della pubblica amministrazione, e quindi degli enti locali, dovrebbero tornare a crescere, su spinta del Pnrr, raggiungendo il 33,8 per cento. A partire dal 2024, si legge ancora nella Nadef, gli investimenti finanziati dalle risorse del Recovery dovrebbero arrivare all’1,7 per cento del Pil. Ovviamente se tutto va bene.

L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), nella nota con cui valida le stime della Nadef, a prescindere dai governi, scrive: «Un ulteriore rischio riguarda la tempestiva ed efficiente attuazione dei progetti di investimento del Pnrr, che potrebbe essere compromessa a causa dei notevoli aumenti dei costi energetici e della carenza di alcuni materiali».

«Possibili razionamenti»

C’è però un altro passaggio del comunicato dell’Ufficio parlamentare che ha validato l’aggiornamento dei saldi pubblici, ancora più degno di nota: «Le stime sono caratterizzate da una forte incertezza, legata soprattutto agli sviluppi e alle ripercussioni della guerra, lo scenario internazionale appare instabile e fragile e le prospettive potrebbero cambiare significativamente, anche in un arco temporale breve». Le stime del governo per il 2023 sono leggermente più ottimiste delle previsioni dell’Upb. In più quest’ultimo parla apertamente di rischio razionamento: se si dovesse verificare lo scenario peggiore, cioè il blocco delle forniture dalla Russia e un contesto globale di contrazione economica, «potrebbe rendersi necessario un razionamento dei consumi di gas nel corso del prossimo inverno, con ricadute non trascurabili sull’attività economica». Il contesto in cui Meloni va a formare il governo, con un partito che non è mai entrato a palazzo Chigi, è a dir poco difficile, più di quanto l’esecutivo Draghi abbia fatto capire finora, ma la sua scommessa sul Pnrr del «si può fare meglio» è azzardata. La premier in pectore rischia di avere problemi persino ad attuare gli obiettivi legislativi già avviati e messi sui binari dall’esecutivo precedente. E non per la crisi economica ed energetica, ma per scelta politica, per via delle sue promesse elettorali e di quelle dei suoi alleati che il governo precedente non aveva.

Il documento che aggiorna i saldi dei conti dello stato ricorda le raccomandazioni del Consiglio Ue, sottoscritte dall’Italia con i partner europei ed elenca, tra le altre cose, l’adozione e l’attuazione della delega fiscale, «l’allineamento dei valori catastali ai valori di mercato correnti», «la razionalizzazione e la riduzione delle spese fiscali e delle sovvenzioni dannose per l’ambiente». Sulle riforme che Lega e Forza Italia hanno fatto saltare non ci possono essere colpe dell’esecutivo precedente che tengano.

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