L’ormai prossima scadenza di Quota 100 ha infiammato il dibattito sulle pensioni con tutti i suoi stereotipi, tra i quali primeggia quello che identifica, senza troppe distinzioni, negli anziani i vincenti e nei giovani i perdenti del nostro sistema di welfare.

Il ragionamento è semplice nella sua apparente ovvietà: le pensioni, a causa di una storica generosità, assorbono la quota principale della spesa sociale e alimentano il nostro debito pubblico; questa spesa, essendo finanziata a ripartizione, grava sugli attuali giovani, che sono peraltro già penalizzati dagli squilibri demografici e dal funzionamento del mercato del lavoro.

Come superare Quota 100 e le sue discriminazioni

Anche in previsione del vicino pensionamento dei figli del baby boom, per contenere il debito futuro occorre intervenire sul sistema pensionistico; ma partiti politici e sindacati sono, per vari motivi, più attenti alle richieste degli anziani e dunque i costi delle riforme si scaricheranno sui giovani, aggravando il divario fra anziani ricchi e ultra-garantiti e giovani poveri e abbandonati dal welfare.

Contro l’iper-semplificazione

Come spesso accade, ognuna di queste affermazioni ha un fondo di verità non sufficiente però ad evitare il rischio di iper-semplificare una realtà ben più complessa.

Ad esempio, è vero che in Italia la spesa per ‘vecchiaia e superstiti’ è, in rapporto al prodotto interno lordo, la più alta nell’Ue a 27, nel 2019, 16,5 per cento contro una media del 12,5 per cento, ma ciò è dovuto anche al ruolo sostitutivo di altra spesa sociale storicamente attribuito in Italia alle pensioni; peraltro, tale divario scompare se si guarda alla spesa pro-capite.

La spesa sociale che manca

Inoltre, in rapporto al Pil, la spesa complessiva per la protezione sociale in Italia è ben inferiore a quella dei principali partner europei nel 2019, 28,3 per cento contro il 29,1 per cento e il 31,4 per cento di Germania e Francia, rispettivamente, e ciò vuol dire che vi sarebbe spazio per ampliare interventi destinati ai più giovani come sostegni ai minori e ammortizzatori sociali in primis).

Ancora, come già da noi sostenuto su Domani, è senz’altro vero che le giovani generazioni sono, in media, penalizzate dalle dinamiche del mercato del lavoro italiano dalla metà degli anni Novanta in poi, ma ben più rilevanti, e poco considerati, sono gli enormi e crescenti divari all’interno delle diverse generazioni. Infine, spesso si dimentica che, come riconoscono le stesse istituzioni europee, l’Italia è il paese che ha realizzato le più rilevanti riforme pensionistiche negli ultimi 30 anni.

Se è vero che il passaggio al contributivo, con la sua estrema gradualità, resa solo parzialmente più veloce dalla riforma del 2011, è stato, sostanzialmente, a ‘costo zero’ per chi nel 1995 aveva già percorso metà della propria carriera, le riforme introdotte nella ‘Grande Recessione’ hanno impattato, senza alcuna gradualità, proprio su chi era più prossimo al pensionamento.

Queste considerazioni sconsigliano di interpretare ogni intervento a tutela di (alcuni fra gli) anziani come ulteriore prova che “l’Italia è un paese per vecchi”. Un dibattito meno isterico, che a slogan e luoghi comuni – come quel «torniamo al contributivo» da molti invocato in questi giorni che suona abbastanza ridicolo in un paese che non lo ha mai accantonato – preferisca la riflessione informata, attenta alla complessità dei fenomeni e proiettata alla ricerca di un realizzabile equilibrio fra le istanze delle diverse generazioni, potrebbe contribuire a migliorare l’efficienza del sistema economico e, al contempo, accrescere l’equità fra generazioni e al loro interno. Come appare ragionevole chiedere a ogni misura di politica economica.

Una misura come Quota 100 – o, anche, Quota 102 – è certamente problematica per l’efficienza – il suo costo non irrilevante per il bilancio pubblico non è stato compensato da alcun boom occupazionale – e, soprattutto, per l’equità interna alla generazione anziana dato che l’elevata contribuzione richiesta per accedervi ha avvantaggiato chi ha beneficiato di carriere lavorative più continue. Efficienza ed equità richiedono di cancellare una misura così mal disegnata ma non richiedono affatto di rinunciare a forme di flessibilità dell’età pensionabile, che peraltro non rappresentano l’ennesimo furto degli anziani a danno dei giovani.

Flessibilità

Come abbiamo già sostenuto su Domani, sfruttando le potenzialità della formula contributiva, si potrebbe consentire piena flessibilità dell’età di pensionamento, a partire da un’età e un importo di pensione minimo, prevedendo una riduzione attuariale della quota di pensione retributiva, ormai minoritaria per la maggioranza degli attuali pensionandi.

In questo modo si rispetterebbero le preferenze degli individui, col possibile effetto che a ritirarsi prima sarebbero i meno motivati e produttivi, e resterebbero invariati i saldi di lungo periodo del bilancio pubblico.

I più deboli

Se poi alla misura si accompagnassero eccezioni per chi ha maggiori difficoltà occupazionali o svolge mansioni più gravose – estendendo uno strumento meritorio come l’Ape sociale – si offrirebbe maggiore protezione proprio a chi è maggiormente esposto a rischi di varia natura, come dovrebbe essere proprio di ogni istituto di welfare.

Interventi come questi non impedirebbero misure a tutela dei più giovani, in particolare, di quelli che più subiscono i rischi delle crescenti disuguaglianze del mercato del lavoro.

Da anni, in contrasto con una diffusa opinione, sosteniamo che il sistema contributivo non è una peste che genererà per tutti pensioni da fame; tuttavia, a causa delle regole di stretta neutralità attuariale che lo contraddistinguono, il contributivo può comportare gravi rischi di inadeguatezza delle pensioni future per chi avesse carriere lavorative intermittenti e con bassi salari.

Tutele mirate

Di nuovo, non occorrono misure indiscriminate per i giovani – come inefficienti e iniqui sgravi contributivi basati sull’età – ma forme di tutela mirate per chi, nell’ambito del contributivo, è più esposto ai rischi di mercato. Un importante esempio è una pensione di garanzia, di importo minimo legato agli anni di attività e all’età di ritiro.

In conclusione, costituisce un impoverimento delle potenzialità della politica la tendenza, purtroppo prevalente, a ricorrere a slogan e luoghi comuni piuttosto che a una riflessione informata. Si può perfino pensare che quella tendenza ostacoli la formazione di un ampio consenso rispetto a misure ragionevoli e alimenti contrapposizioni di cui non si avverte in alcun modo il bisogno.

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