I quattro operai della Portovesme srl che si sono arrampicati su una ciminiera alta 100 metri per attirare l’attenzione sul loro posto di lavoro in pericolo, hanno fatto la cosa giusta, anche se non risolutiva. Infatti hanno scelto l’unico gesto, disperato ed eclatante, in grado di attirare l’attenzione sulla loro disperazione.

Non risolveranno niente, però è solo per merito delle proteste clamorose e talvolta sguaiate (blocchi stradali, sassate ai ministri in visita, minacce di suicidio, vene tagliate in diretta tv) che gli italiani sono da molti anni sia pur vagamente a conoscenza del destino infame dei loro fratelli del sud ovest della Sardegna. Quanto ai risultati concreti, per ora hanno ottenuto l’impegno del ministro Adolfo Urso a convocare un tavolo. Si può scegliere se accontentarsi o mettersi a ridere.

Minaccia dunque la chiusura la Portovesme, 1.200 lavoratori più l’indotto che fabbricano zinco, piombo e altre sostanze per l’industria. Fa parte della multinazionale svizzera Glencore, ed è uno dei frutti marci delle privatizzazioni degli anni ’90: era una società dell’Eni, poi fu deciso che i privati sì che sanno mandare avanti le aziende ed è iniziato il calvario.

Si badi bene: non è certo, anzi, che la gestione statale avrebbe fatto andare meglio queste aziende. Però oggi si vede come nella filosofia delle privatizzazioni si fosse innestato un equivoco tragico: lo stato ha delegato all’impresa privata il governo dell’economia e da allora nessun politico e nessun imprenditore si è più assunto un briciolo di responsabilità.

Le crisi aziendali sono considerate come fenomeni meteorologici. Piove industria ladra, e tu ti trovi disoccupato. Tutto questo nel Sulcis avviene in modo surreale, perché nell’ex area industriale di Carbonia e Iglesias le fabbriche chiudono tutte e tutte insieme, una vera filiera, un distretto specializzato (come direbbero gli economisti bravi) del declino industriale.

Gli ultimi 25 anni

Se si riavvolge il film degli ultimi 25 anni ci sarebbe quasi da ridere se i contorni della vicenda non fossero drammatici. Ricordatevi come comincia tutto. Il regime fascista fonda la città di Carbonia intorno alle miniere di carbone, preziose per le ambizioni autarchiche.

Arrivano disoccupati da tutta Italia, affascinati dal posto fisso (anche se è un lavoro pericolosissimo) e dal miraggio dell’alloggio con bagno e acqua corrente. La cittadina arriva ad avere 65mila abitanti, e ogni giorno si calano nei pozzi anche 20mila operai.

Nel Dopoguerra il carbone declina e lo stato decide di sostenere l’economia sarda con l’industria pesante e inquinante. Nel Sulcis nasce la filiera dell’alluminio che produce il prezioso metallo attraverso un ciclo integrale che parte dal minerale, la bauxite. Naturalmente non è un grande affare.

La produzione dell’alluminio è energivora, come suol dirsi, e in Sardegna l’elettricità non c’è. Davanti al colosso di Portovesme, che si chiama Alumix, viene fatta una centrale elettrica per alimentare la fabbrica. Ma l’equazione tra costo dell’energia e prezzi di mercato non torna.

Lo stato, attraverso l’Enel, sovvenziona l’alluminio. Poi però la cosa non sta più in piedi. L’Enel viene privatizzato e viene privatizzata anche la Alumix. A pezzi. L’Eurallumina, in testa al ciclo, che estrae l’ossido di alluminio dalla bauxite, viene venduta ai russi della Rusal con cui oggi siamo praticamente in guerra.

La trasformazione dell’ossido di alluminio in alluminio, cioè la fabbrica vera, va alla multinazionale americana Alcoa, leader mondiale. Intanto la Glencore si prende dall’Eni la Portovesme. Tutte fabbriche energivore.

A un certo punto l’Unione europea interviene e dice che il governo italiano, fornendo elettricità con lo sconto, distorce la libera concorrenza.

La prima a mollare è l’Eurallumina: ha fermato la produzione nel 2009, da allora politici regionali e nazionali di ogni colore annunciano mediamente tre volte all’anno l’imminente ripresa della produzione che, 14 anni dopo, ancora non c’è stato.

Poi Bruxelles fa una mega multa all’Alcoa, sempre perché con l’elettricità sovvenzionata bara in quel club di signori che si chiama libero mercato. Alcoa a quel punto decide di andarsene, visto che ha fabbriche di alluminio in tutto il mondo, per esempio in Islanda dove l’energia è geotermica e viene via gratis, e quindi della fabbrica del Sulcis non sa che farsene. Siamo all’inizio del 2010, sono passati 13 anni, dei duemila operai rimasti a piedi allora ne sono tornati al lavoro un centinaio scarsi, chissà per quanto tempo.

Le regionali del 2009

Sembra di sognare. A febbraio del 2009 era in corso la campagna elettorale per la regione Sardegna che si sarebbe conclusa con la sconfitta di Renato Soru, governatore uscente targato Pd, e la vittoria di Ugo Cappellacci, figlio del commercialista di Silvio Berlusconi. Il quale allora era presidente del Consiglio e amico per la pelle di Vladimir Putin che gli aveva regalato il famoso lettone dove intratteneva le escort.

Ciò consentì un giorno al premier di raccontare a una delegazione di politici sardi, preoccupati per le sorti dell’Eurallumina, che aveva avuto una telefonata di mezz’ora con il presidente russo il quale si era impegnato a sua volta a convocare per la sera stessa lo stato maggiore della Rusal (oligarchi amici suoi) per intimare loro di non far innervosire l’amico Silvio.

Dopo 14 anni siamo ancora lì, non è successo più niente. Nel frattempo dei 450 lavoratori Eurallumina di allora qualcuno è morto, qualcuno è andato in pensione, qualcuno ha continuato a prendere la cassa integrazione, qualcuno è andato a lavorare col cognato.

E poi è cominciato l’incubo dell’Alcoa, la corazzata del Sulcis. Dava lavoro a duemila persone tra lavoratori diretti, indiretti e indotto. Quando è iniziata la beffa, per l’Epifania del 2010, il governo Berlusconi ha subito messo in scena la farsa che tutti i governi seguenti (rossi, rosa, gialloverdi, giallorossi ecc.) hanno continuato disciplinatamente a recitare.

Funziona così: se l’Alcoa, leader mondiale dell’alluminio, dichiara che a quei prezzi dell’elettricità l’alluminio non si può fare, subito il ministro italiano scommette sul fatto che ci sarà un altro gruppo molto qualificato che invece ci riuscirà.

Nel 2013 è iniziata la trattativa con il gruppo Klesh ma è durata poco. Poi è stata la volta della Glencore, ma anche stavolta è durata poco. Poi nel 2015 la svolta: sponsorizzata dalla Cisl nel ruolo di talent scout di industriali capaci, si presenta il gruppo svizzero (ma di proprietà italiana) Sider Alloys.

Impiegano oltre due anni a fare l’accordo, che viene benedetto a febbraio del 2018 (cinque anni fa!) dall’allora ministro dello Sviluppo uscente, Carlo Calenda.

Poi arrivano le elezioni politiche, arriva il governo gialloverde e salta l’ipotesi di ripartenza della filiera Eurallumina-Alcoa basata sull’elettricità prodotta dalla centrale a carbone antistante, intitolata chissà perché a Grazia Deledda.

L’esecutivo decide che è ora di finirla con le centrali a carbone. Si riparte con il tentativo di alimentare a gas la centrale. Solo che in Sardegna il gas non c’è. Allora o si porta al molo di Portovesme con le bettoline oppure si mette dentro il porto un gigantesco rigassificatore galleggiante.

La discussione è ancora aperta e intanto la Portovesme srl vagheggia un futuro di estrazione del prezioso litio per le batterie da batterie usate: una delle attività più inquinanti che esistano, giustamente la Glencore la vuole fare in Sardegna, in Svizzera non sarebbe il caso.

I quattro operai che sono saliti in cima alla ciminiera hanno ragione a pretendere “risposte concrete”, che è uno slogan sindacalese un po’ logoro però trova la sua legittimazione nel fatto che la politica da vent’anni prende in giro un’intera provincia dove ci sono 130mila abitanti e 40mila disoccupati, mentre la fonte di reddito principale sono le pensioni.

E di tavolo in tavolo si rinvia da decenni l’unica decisione da prendere: che si fa con il Sulcis? Beffa finale: ogni tanto da quelle parti arriva un barcone di algerini di cui le cronache si occupano poco perché sono fuori dal flusso tragico che viene dalla Libia. Questi freelance della migrazione partono dal loro paese in cerca di fortuna e si dirigono verso la costa più vicina, il Sulcis appunto. E sbarcano illudendosi di essere arrivati in Europa.

 

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