PosteID copre il 72% delle 40 milioni di SPID in Italia. Ora, però, il servizio potrebbe costare 5 euro l’anno. Se per la società, che lamenta fondi governativi insufficienti per un’attività che altrimenti non sarebbe più sostenibile, potrebbe valere circa 100 milioni di euro di ricavi, per gli utenti sarebbe la fine del principio che aveva reso universale questo strumento. Decisione a fine ottobre
Poste italiane sta valutando un canone annuo di cinque euro per l’utilizzo di PosteID, il sistema che garantisce oggi l’accesso digitale a 28,7 milioni di cittadini, pari al 72% delle credenziali Spid attive in Italia. Si tratterebbe di un cambiamento radicale, perché toccherebbe l’identità digitale che negli ultimi anni si è diffusa proprio grazie alla gratuità, conquistando quasi quaranta milioni di attivazioni. Per Poste l’operazione significherebbe circa cento milioni di euro di nuovi ricavi, secondo le stime degli analisti, ma per milioni di utenti rappresenterebbe la fine di un principio che aveva reso Spid uno strumento universale.
Il percorso che ha portato a questo scenario è segnato da segnali evidenti. Già altri provider hanno introdotto tariffe: Aruba ha fissato il rinnovo a 4,90 euro annui più Iva, InfoCert ha comunicato un costo di 5,98 euro all’anno, Register.it propone un’offerta standard da 9,90 euro più Iva che può arrivare fino a 80 euro per i pacchetti evoluti destinati alle imprese.
Poste, che domina il mercato con oltre due terzi delle identità digitali attive, ha scelto finora la linea della gratuità, sostenuta dai finanziamenti pubblici e dal vantaggio competitivo di una rete capillare di uffici. Ma l’annuncio di un canone, anche se contenuto, segna la rottura di un equilibrio che teneva insieme convenienza degli utenti e sostenibilità per le aziende.
Un ostacolo per milioni di persone
Il governo aveva stanziato 40 milioni di euro a sostegno degli identity provider, misura formalizzata solo a marzo 2025 dopo due anni di rinvii. Fondi giudicati insufficienti dalle società che gestiscono Spid, costrette a sobbarcarsi costi crescenti per la sicurezza informatica, i controlli di identità e la manutenzione dei sistemi. Gli operatori spiegano che l’attività non è più sostenibile senza un contributo da parte degli utenti. Il rischio ora è che il passaggio al pagamento diventi strutturale e diffuso, con una giungla di tariffe che differenziano l’accesso a un servizio che dovrebbe rimanere uniforme.
Il problema non è solo economico. Un canone apparentemente minimo può diventare un ostacolo per milioni di persone. Le statistiche Istat mostrano che gli anziani sono la fascia che più ha beneficiato della spinta digitale legata al Covid e ai bonus gestiti tramite Spid, ma rimangono quelli con minori competenze tecnologiche e minore propensione a sostenere costi extra. Introdurre una barriera di prezzo significherebbe rendere più difficile l’accesso ai servizi online di Inps, Agenzia delle entrate e sanità per chi già fatica a orientarsi.
La moltiplicazione delle tariffe apre inoltre scenari di confusione. Oggi lo stesso strumento può costare 4,90, 5,98, 9,90 o addirittura 80 euro all’anno a seconda del fornitore e del tipo di servizio sottoscritto. In assenza di regole comuni, l’utente è costretto a districarsi tra listini diversi, con il rischio di pagare più del necessario o di perdere la continuità dell’accesso ai servizi pubblici digitali. Anche perché l’Autorità garante per l’innovazione digitale non ha ancora fissato tetti o standard che possano garantire trasparenza e uniformità.
Le strategie del governo
Il contesto politico aggiunge poi ulteriori incognite. Da mesi il governo ha annunciato l’intenzione di superare lo Spid per convergere sulla Carta d’identità elettronica e sull’IT-Wallet, che dovrebbero consentire entro il 2026 a oltre il 70% degli italiani di gestire identità e documenti direttamente dallo smartphone. La direzione è quella di un ecosistema unico, in linea con le strategie europee. Ma nel frattempo Spid resta la porta principale per la maggior parte dei cittadini. E l’annuncio di tariffe a pagamento rischia di minarne la fiducia proprio nel momento in cui il sistema dovrebbe accompagnare la transizione.
Un passaggio delicato è fissato per fine ottobre, quando scadranno le convenzioni che legano gli identity provider allo Stato. Senza un rinnovo chiaro e una strategia condivisa, milioni di utenti si troveranno in una zona grigia, sospesi tra il rischio di un servizio a pagamento e un nuovo modello ancora incompleto. L’inevitabile prospettiva quindi è che una parte degli italiani paghi per mantenere lo Spid, mentre altri vengano traghettati verso CIE e IT-Wallet, con una duplicazione che accentua i problemi invece di risolverli.
In gioco non c’è soltanto la sostenibilità dei provider, ma la tenuta del principio di universalità dell’identità digitale. Introdurre costi differenziati significa riportare indietro l’orologio, creando diseguaglianze nell’accesso a diritti fondamentali che ormai passano quasi esclusivamente dal canale digitale. La scelta di Poste, se confermata, diventerebbe il banco di prova di un passaggio che riguarda 28 milioni di persone: la maggioranza degli italiani che usano quotidianamente lo Spid per dialogare proprio con lo Stato.
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