È cambiata la Lega o è cambiato il mondo che alla Lega guardava? O nessuno dei due? Nei giorni in cui si invoca la spinta del Nord «produttivo» dietro alle scelte di sostegno al governo di Salvini, Luciano Vescovi, presidente della organizzazione degli industriali della provincia più industriale d’Italia, Vicenza, ogni dieci abitanti una azienda, dice che nell'anno della pandemia «si è rivoltato tutto».

La ripresa, ha detto Vescovi, è stata trainata dal Nord Est che guarda all'export e all’Europa in cui la nostra industria è integrata. A sentire Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto, la percezione della fine di una stagione è ancora più chiara. Dice Carraro: «Il modello di sviluppo del Veneto era piccolo e bello, ma il mondo è diventato sempre più grande. Le aziende più piccole legate al mercato domestico, hanno investito di meno, hanno sviluppato meno prodotti». Carraro non crede alla tesi per cui la pandemia corrisponda a un’altra battuta d’arresto nel processo di globalizzazione, dopo i tentativi di frenata arrivati dagli Stati Uniti di Trump. «Non c’è nessun passo indietro, i mercati del far east si sono già ripresi». C’è un’Asia che sta mettendo la freccia del sorpasso e c’è un sistema produttivo che sembra aver preso consapevolezza finalmente che i parametri che valevano negli anni Novanta non valgono più. «Si può ovviare alla questione dimensionale delle imprese mettendosi in filiera, ma è una dimensione che va sempre considerata anche solo perché il merito del credito è più complicato sulle attività più piccole», dice Carraro.

Per la Lega istituzionale

Giuseppe Toschi ricercatore della fondazione Nord Est dice che a confrontare i dati più aggiornati di Unioncamere e quelle delle associazioni degli industriali riunite in Assindustria, il risultato è lo stesso: «La pandemia ha colpito più le piccole imprese. Già nel terzo trimestre dell’anno, le imprese più grandi sopra i 250 addetti hanno iniziato a riprendersi e le medie imprese nel quarto trimestre hanno avuto risultati in linea con il quarto trimestre del 2019, mentre le imprese che soffrono di più sono quelle fino ai diciannove addetti». La meccanica e la manifattura sono quelle che hanno tenuto di più, settori che hanno una propensione alle esportazioni dei beni intermedi, soprattutto verso la Germania, ingranaggi delle filiere europee, appunto.

L’Istat, spiega Toschi, ci dice che il manifatturiero ha registrato meno 12,2 per cento di produzione industriale, ma questa cifra nasconde differenze settoriali molto profonde,un alimentare che cala del 2,5 per cento e l’abbigliamento, dove tante piccole imprese lavorano a un'azienda pià grande, segna meno 28,5. Eppure la Lega che trionfa nel Veneto di Carraro con percentuali bulgare è quella che al governo ha deciso una flat tax per le microimprese che guadagnano fino a 100mila euro: il contrario degli incentivi per crescere.

Per anni la fondazione Nord Est ha studiato il fenomeno del capitalismo delle piccole imprese e di come ha dovuto fare i conti con se stesso nella globalizzazione. Per prendere consapevolezza che il modello doveva cambiare ci sono voluti anni.

Oggi il presidente di Confindustria veneto sembra andare in un’altra direzione. «Il sistema fiscale deve servire allo sviluppo dimensionale, non dico che piccolo sia brutto, ma è una questione di sistema, anche la ricerca ha costi minimi che le piccole imprese fanno fatica ad affrontare». Su Salvini spiega: «È assolutamente da applaudire per come ha risposto alle richieste del presidente della Repubblica» e aggiunge «secondo me il settantacinque per cento che ha votato Zaia alla regionali vuole una lega più istituzionale».

L’appuntamento con la crisi pandemica oggi fotografa una classe imprenditoriale che sa di essere davanti a una frattura. E che dichiara di avere l’interesse, non solo ad abbracciare una agenda europeista come era comprensibile visto che diritto e mercato sono comuni, ma anche a sposare un certo tipo di agenda per lo sviluppo, sapendo che alcune aziende sopravvivranno e altre no.

Le continuità

La Confindustria non dichiara cosa vota, con l'eccezione di quel famoso e eloquente endorsement a Berlusconi a Vicenza, ricorda Gianluca Passarelli, docente di Scienza politica all’università La Sapienza di Roma, e autore di diversi volumi sul fenomeno leghista.

La componente dirigenziale è secondo il professore certamente la più aperta ed è quella a cui il programma di estrema destra di Salvini può piacere meno «anche solo perché conoscono la necessità di compromesso». Ma se in questa fase la linea del segretario è in minoranza culturale e organizzativa, secondo Passarelli è perché nella Lega prevalgono la continuità.

Secondo il professore i dati sulla base del partito dicono che «quello a cui abbiamo assistito con Salvini è stato una storia di maquillage carnevalesco, in cui il partito si presentava come un partito nazionale per arrivare al sud approfittando della crisi economica finanziaria e trovare un nemico comune». Il nemico comune di Sud e Nord poteva essere l’Europa. «Alle europee ha funzionato», dice Passarelli, «ma in questi giorni avete sentito qualcuno che ricordi a Salvini i suoi impegni, che dica “Ehi, cosa fai, torni la Lega del Nord? Dove sono i militanti del Sud?». «L’approccio culturale», argomenta, «è rimasto quello della Lega anni Ottanta e Novanta e cioè il “prima l’economia” e il partito resta un partito non di opposizione al sistema, ma nel sistema». In alcuni territori, necessariamente, visto che il Partito democratico «ha abdicato alla rappresentanza».

«Dobbiamo diventare la Dc»

Per Lorenzo De Sio, professore di Scienze politiche all’università Luiss e direttore del centro italiano di studi elettorali, il Cise, il punto fondamentale è inserire la strategia della Lega nel contesto di quello che sta succedendo da anni nel centrodestra.

«La Lega del 2013 prendeva il 3,7 per cento e in pochi anni Salvini ha quadruplicato il risultato», ricorda. Con l’eclissi di leadership del centrodestra abbiamo assistito a elettori orfani ma che sono andati a votare, questo ha significato che la Lega si è trovata a gestire una domanda di diventare qualcosa’altro. Un esponente di primo piano del partito mi ha detto: quando prendi il 30 per cento devi diventare la democrazia cristiana».

Il paradosso è che in questo contesto Salvini aveva scelto finora la strada opposta estremizzando la sua proposta, allo stesso tempo sottovalutando gli interessi diversi tra ceti popolari del Nord e del Sud. «Al settentrione sono principalmente occupati e con capitale sociale più alto, al Sud c’è una domanda di assistenza più forte. e ora», dice De Sio, «l’esito più probabile di questi movimenti è il ritorno a una divisione dei compiti, a una divisione di compiti tra partiti del Sud e del Nord».

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