Si dice che il modo in cui ci raccontiamo definisce il modo in cui ci vedono gli altri. Vale anche per il lavoro. No, non sto dicendo che se dico di essere una persona geniale o innovatrice ci crederanno. No. E non ti sto suggerendo di farlo. Ma converrai che la narrazione è oggi alla base di successi, fallimenti, passaggi repentini sulle pagine della cronaca e altrettante veloci fughe nel dimenticatoio. 

Come raccontiamo il mondo del lavoro? Vecchio, da svecchiare, maschile. Alcune di queste affermazioni sono vere fuor di dubbio. Anni fa si diceva anche che un uomo sposato era più affidabile e faceva carriera più velocemente, perché «ha messo la testa a posto» e poi si sa, in casa gli uomini non fanno niente, quindi anche metter su famiglia è faticoso soltanto per le donne, che infatti non fanno carriera per lo stesso motivo e sicuramente non vengono considerate più affidabili perché hanno bambini, anzi.

C’è bisogno di dirlo? I tempi sono cambiati, certo, ma l’età media dei manager in Italia è di 50,2 anni (rispetto alla media dei manager europei che è di 45,2 anni, secondo i dati elaborati da Manageritalia), quindi sì, quei capi, uomini, la pensano ancora così. Io l’ho sentito dire pochi anni fa. Sono andata a controllare: 6 anni fa, non di più.

Ricordo il collega coi confetti e il nostro capo. Non uno dei peggiori che io abbia avuto, ma sicuramente uno che aveva imparato a essere così dal suo capo, e dal capo del suo capo. Tutti maschi una casellina dietro l’altra dell’organigramma, per anni. 

Il racconto del mondo del lavoro spesso passa da storie che si fanno esempio e che diventano luoghi comuni: tutti col coltello tra i denti, pronti a pugnalare gli altri alle spalle, e chi è alla guida non è il capitano di una squadra, ma ha un che di gerarchia dell’esercito. Chi è in charge è al comando.

Anche il mio job title ha un sapore vagamente militare: in italiano sarebbe Direttrice marketing, in inglese è Chief Marketing Officer, che si traduce letteralmente come Ufficiale Capo (del marketing in questo caso, ma in inglese c’è un Chief-Officer per tutto).

Lavorare a Milano

Anche l’ambiente è parte delle nostre interazioni. Ricordi che in Sex & the City New York era la quinta protagonista? È lo stesso con il lavoro: non ci siamo solo noi, con le nostre formazione, competenze e idee, c’è l’ufficio e c’è la città che lo ospita. 

Ci sono posti dove lavoriamo e viviamo che cambiano più velocemente di altri e trasformano consuetudini nuove in regole.

Milano è certo uno di questi. 

Hai sempre l’ultimo modello di ogni device? Sì? E le dotazioni del tuo ufficio vengono sostituite alla stessa velocità? Penso di no. Ecco dove cambia il mondo: millennial, abituati a utilizzare l’ultimo modello di ogni device si trovano in difficoltà con le dotazioni aziendali e finiscono – ma non solo loro – a usare strumenti propri. Un problema da affrontare per i reparti IT, a partire dal fatto di dover garantire la sicurezza aziendale.

Eppure è uno dei cambiamenti della società che sta già trasformando il mondo del lavoro, tanto che è nata l’espressione Bring your own device (BYOD, in italiano: porta il tuo dispositivo) per indicare le politiche aziendali che permettono di usare i propri dispositivi per accedere ad app e informazioni aziendali.

Non è lo smart working che magari abbiamo sperimentato prima, o solo poi in maniera coercitiva a causa della pandemia, a cambiare il nostro approccio. Il mondo del lavoro è già cambiato. Ci adattiamo noi lavoratori e si adattano le aziende coi loro regolamenti.

E dove non avviene? Dove non si svecchia? 

Altre affermazioni sul mondo del lavoro qui sono frutto di una frustrazione profonda data dal desiderio di sentirsi dire che il tempo che spendiamo non è solo pagato il giusto, ma anche fruttuoso: un investimento sul futuro. E ora ce lo immaginiamo insieme questo futuro?

Reagire

Da come lo raccontiamo il lavoro così lo affrontiamo: con dedizione, o sofferenza, con spirito di sacrificio o voglia di rivalsa. Io so che c’è sempre un modo per dirsi soddisfatti: mettere tra sé e il lavoro, le paturnie del capo, la pressione, l’ansia, una parete come quella che usano gli attori per essere credibili in scena, non recitare davanti al pubblico, ma essere nella parte. 

Serve anche a non reagire alle provocazioni. Perché reagiamo? Perché il contagio emotivo è facile: replichiamo comportamenti e in ufficio ci sincronizziamo su umori, espressioni, modi di fare. E di comportarci, anche male.

Ognuno di noi, al di là di gestire o meno un team in ufficio, ha a che fare con tanti professionisti diversi. Siamo tutti clienti e siamo tutti datori di lavoro. E quindi potenzialmente pessimi clienti e pessimi capi.

Ognuno di loro ha una storia da raccontare, non solo legata a uffici che magari abbiamo avuto in comune, o a situazioni lavorative nuove. 

Vuoi raccontarmi la tua? 

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