La crescita del prodotto interno lordo è senza dubbio un obiettivo prioritario per l’Italia, sia per la sua stasi ventennale, sia per la dimensione del nostro debito pubblico, la cui sostenibilità è legata al suo rapporto con il Pil. Per effetto del venir meno degli interventi di sostegno della Bce e dell’aumento dei tassi d’interesse decisi per combattere l’inflazione è assai probabile che nei prossimi anni il debito dell’Italia diventerà più costoso. Per ridurre il rapporto tra debito e Pil occorre quindi agire su quest’ultimo, la cui crescita ha un solo motore certo: la domanda aggregata. E a parità di domanda si dà per scontato che l’aumento del Pil dipende dalla crescita della produttività, cioè del prodotto per ora lavorata.

Ma proviamo anche qui a introdurre due ipotesi non irragionevoli.

La prima è che l’Italia si avvii ad avere un mercato del lavoro dualistico, con ampie sacche sia di disoccupazione (al Sud), sia di categorie unskilled, cioè di lavoratori non qualificati, che nemmeno si presentano nel mercato del lavoro (si pensi al basso tasso di attività femminile, soprattutto nel Mezzogiorno), e infine i lavoratori a tempo parziale involontario o comunque con occupazioni saltuarie.

Questa tendenza può accentuarsi con il progresso tecnico, e accompagnarsi ad una produttività crescente delle categorie skilled.

Una risposta possibile sarebbe: comunque, se quell’aumento di produttività fa crescere il Pil, ci saranno più risorse da ridistribuire alle categorie meno fortunate citate sopra.

Tuttavia, se il mercato del lavoro rimane dualistico in questo modo, si configura anche una cesura sociale rilevante. E questa comporterebbe anche l’accentuarsi della necessità di politiche ridistributive, con i ben noti rischi italiani di derive clientelari, ma anche di fenomeni di resistenza sociale da parte dei lavoratori skilled (tra cui la “fuga di cervelli”).

La seconda ipotesi è che avere un lavoro dignitoso sia un bene in sé. A tal fine sembra persino inutile citare le basi della nostra costituzione, questo sembra un valore molto condiviso e condivisibile, anche nella misura in cui rafforza il “patto sociale” di un corrispettivo tra una fiscalità progressiva (che ovviamente rimarrebbe) e l’impegno al lavoro di tutti quelli in grado di lavorare. Infatti le retribuzioni non potranno essere comunque egualitarie tra lavoratori skilled e unskilled.

Allora l’obiettivo cambia: per la crescita del Pil (e questa è una pre-condizione), non è più l’incremento della produttività l’obiettivo dominante, ma la quello della produzione totale. E quest’ultima potrà avrà due motori: la produttività dei lavoratori skilled e l’estensione di capacità produttive alle categorie sottooccupate o non presenti sul mercato del lavoro o disoccupate.

In questo quadro rientra pienamente l’accentuarsi dell’immigrazione, indispensabile per ragioni di calo demografico e di invecchiamento della popolazione. Infatti, anche nel caso (tutt’altro che scontato) di migliori livelli di formazione e di impiego in settori avanzati dei lavoratori italiani oggi unskilled, avremo in futuro importanti masse di lavoratori immigrati privi di qualifiche, e in più con ovvie difficoltà linguistiche.

Che fare allora, se le risorse pubbliche rimarranno scarse, e quadro qui delineato sembra ragionevole?

La crescita di investimenti esteri, come ha scritto Alessandro Penati su queste pagine, avrebbe sicuramente impatti positivi sull’occupazione diretta e indiretta e il progresso tecnico, ma verosimilmente riguarderà più i settori avanzati ed i lavoratori skilled. Effetti indispensabili per il primo obiettivo che abbiamo nominato, quello della crescita dei settori avanzati, ma assai meno per il secondo.

E nemmeno le grandi opere pubbliche previste dal Pnrr rispondono all’esigenza di crescita dell’occupazione unskilled: sono infatti caratterizzate da bassa intensità di lavoro, e da mano d’opera sempre più specializzata.

Di nuovo, per la crescita con risorse pubbliche scarse, si ritorna allora a candidare il settore della manutenzione del territorio, quello dell’assistenza di base alle persone, e gli investimenti che agevolano l’occupazione femminile, per esempio nella costruzione di asili, soprattutto al Sud.

Ma certo l’elaborazione di strategie credibili per creare occupazione non specializzata richiederà uno sforzo di fantasia sociale di cui oggi si vedono in Italia scarse tracce.

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