Per decenni, il contribuente italiano ha tenuto a galla Alitalia, ribattezzata Ita Airways. Sembrerebbe ora che lo stato italiano, dopo innumerevoli ristrutturazioni, fallimenti, accordi e iniziative abortite con svariati partners, abbia finalmente imboccato la via di uscita, con nostro grande sollievo. Ma il condizionale è d’obbligo. Per quanto è dato a sapere, Lufthansa dovrebbe sottoscrive un aumento di capitale per acquisire il 40 per cento di Ita e assumerne il controllo operativo e gestionale, mentre la maggioranza del capitale rimarrebbe allo stato (o qualche altra entità pubblica). Una volta resa redditizia la gestione, si impegnerebbe ad aumentare la propria partecipazione, fino alla maggioranza del capitale.

Scelta obbligata

Dopo tanti tentativi di salvataggio, Lufthansa era una scelta obbligata. Negli Stati uniti ci sono tre linee aeree tradizionali e una low cost: ovvio che anche in Europa, dove le compagnie sono innumerevoli, si debba andare verso una struttura analoga.

Per la legislazione vigente, i possibili “aggregatori” devono essere europei. Esclusa quindi la britannica IAG, ennesima vittima della Brexit, e che con Iberia copre già il Sud America, Air France-Klm che deve ancora completare la propria ristrutturazione e ha alle spalle un accordo fallito con Alitalia; rimaneva Lufthansa, che ha già assorbito le compagnie di Austria, Belgio e Svizzera e possiede una propria low cost.

Che Lufthansa risollevi definitivamente le sorti di Ita, conducendo all’uscita dello stato dal capitale, è tutt’altro che scontato. Di fatto, compra soltanto un’opzione su Ita: chiede il pieno controllo gestionale ma è disposta a sottoscrivere solo il 40 per cento del capitale, con un esborso relativamente esiguo.

Evidentemente, teme l’esistenza di debiti, impegni o passività di vario tipo che la due diligence non ha chiarito o fatto emergere, e vuole verificare che le vengano concessi effettivamente pieni poteri gestionali (cosa che in un’azienda italiana a partecipazione pubblica non è ovvia). Si può presumere sia per questo, e per operare in un settore altamente regolamentato, che richiede inizialmente una forte presenza dello stato azionista a garanzia degli accordi.

L’opzione concede a Lufthansa la possibilità di evitare l’esborso per acquisire il controllo del capitale di Ita se emergono difficoltà eccessive nella gestione, passività impreviste o la redditività risulta elusiva; e lo stato rimarrebbe padrone di Ita. Se invece Ita diventa redditizia, può acquisirne la maggioranza (o la totalità?) del capitale, ma non si sa se sia previsto che paghi un congruo premio di controllo. Come in un’opzione, si limita la spesa ma si ottiene il diritto a beneficiare dell’eventuale rialzo di valore di Ita.

L’ultima spiaggia

Lo stato italiano avrebbe potuto negoziare un accordo con Lufthansa che desse la certezza di uscita da Ita? In teoria sì: poteva per esempio richiedere a Lufthansa di comprare subito il 100 per cento del capitale a una valorizzazione molto contenuta, offrendo però una manleva totale su tutte le passività che non fossero emerse nella due diligence, ma chiedendo in cambio un earn out sugli eventuali utili futuri (ovvero una parte degli utili futuri per un certo numero di anni).

Per Lufthansa sarebbe stato lo stesso, sia che la ristrutturazione di Ita fosse andata a buon fine, sia se fossero emerse passività impreviste; ma lo Stato avrebbe ottenuto la certezza di uscire finalmente da quel che resta di Alitalia, e la garanzia dell’impegno di Lufthansa. Questo in teoria. In pratica, lo stato è arrivato all’ultima spiaggia: condizione nella quale si ha ben poco potere contrattuale. Una lezione che purtroppo non ha ancora imparato nei suoi tanti “salvataggi” pubblici. I casi di Mps e Ilva sono lì a dimostrarlo.

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