Tra poco più di una settimana Donald Trump tornerà alla Casa Bianca, e il mondo trattiene il fiato. Rispetto al 2016, quando il tycoon non si aspettava di vincere e la sua amministrazione cominciò nel caos e nell’approssimazione, questa volta il cammino sembra tracciato e gli obiettivi molto chiari: una violenta deregolamentazione, l’abbandono degli obiettivi di transizione ecologica, il ridimensionamento di agenzie e servizi pubblici (compreso il welfare), la riduzione della pressione fiscale sui più ricchi. Una specie di tana libera tutti, insomma. Alcuni parlano, con ogni probabilità a ragione, di un ritorno al capitalismo di relazione dei Robber barons della fine del XIX secolo, una casta di miliardari che utilizzavano la cosa pubblica per arricchirsi ed elargire favori a sodali e amici.

La nuova dottrina Monroe

La politica estera e commerciale sarà probabilmente al servizio dello stesso obiettivo, in una riedizione su scala globale della celebre dottrina Monroe. Le uscite su Panama, sulla Groenlandia e sul Canada probabilmente non daranno luogo a conflitti militari, ma non dovrebbero essere derubricate, come fanno alcuni, a uscite estemporanee.

Il segnale è chiarissimo: soprattutto nel cortile di casa, gli Stati Uniti utilizzeranno la loro potenza economica e militare solo ed esclusivamente al servizio dei propri interessi economici e geopolitici (che a loro volta saranno al servizio degli interessi di Trump e dei Musk di turno). Che sia chiaro, nessuno pensa che in passato gli Stati Uniti abbiano operato in modo disinteressato per il benessere di altri paesi; è piuttosto il contrario (ognuno di noi ha probabilmente il suo esempio favorito). Ma è altrettanto chiaro che con il Trump 2.0 si fa un salto in avanti e si mette una pietra tombale sulla già malconcia gestione multilaterale della politica globale che, per quanto (molto) imperfetta, in passato aveva dato i suoi frutti nel conciliare gli interessi dei diversi paesi.

Se la direzione di marcia è chiaramente delineata, è molto meno chiaro quali saranno le misure che saranno effettivamente prese. Da un lato perché Trump fa seguire annuncio ad annuncio, spesso contraddicendosi; dall’altro perché, per quanto imperfetta, la democrazia americana ha un sistema di checks and balances che impedirà a Trump di attuare i suoi propositi più estremi.

Tra le poche certezze c’è il fatto che la politica commerciale sarà molto più aggressiva e che i dazi doganali saranno uno strumento allo stesso tempo di politica economica e di pressione geopolitica. Ancora una volta, non sappiamo su quali beni e non sappiamo di quanto, ma è chiaro che molti dazi aumenteranno significativamente

Cosa potrà fare l’Europa in risposta a queste misure protezioniste? Sicuramente non continuare con le sue lamentazioni sulla violazione delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ripetiamolo, il sistema di regole multilaterali è morto e sepolto. Se lavorare per rimetterlo in piedi quando i tempi saranno migliori è un obiettivo legittimo o addirittura auspicabile, far finta che oggi si possa giocare come se quelle regole esistessero ancora è illusorio e autolesionista.

Lamentarsi è inutile

Insomma, l’Europa deve riflettere seriamente a delle misure a protezione della propria economia, nel caso probabile in cui Trump metta in atto le sue minacce. È quindi importante capire cosa sia un dazio, a quali scopi può servire, e quali sono i costi e benefici. Il dibattito di queste settimane sui dazi americani può servire da guida su quello che succederebbe da noi in caso prendessimo la stessa strada.

Un dazio di fatto è una tassa sui beni importati e un sussidio per i produttori domestici degli stessi beni. In quanto tale, comporta dei costi per alcuni e dei benefici per altri. Nella propaganda di Trump è il produttore estero che assorbe la totalità del dazio, e il prezzo per il consumatore finale non cambia. Questo è ovviamente fortemente improbabile, il che spiega perché gli economisti sono quasi unanimi nel pensare che i dazi siano inflazionistici: parte del dazio sarà scaricato sul prezzo finale pagato dal consumatore. L’aumento dei prezzi delle importazioni significa che queste si ridurranno e che la bilancia commerciale migliorerà, provocando un rafforzamento della valuta.

Questo a sua volta penalizzerà le esportazioni. Il risultato finale di questa ragnatela di effetti è che il costo del dazio sarà diviso tra i consumatori (che pagano di più), gli esportatori domestici (che con la valuta forte sono meno competitivi), i produttori esteri (che venderanno meno).

Anche le imprese che producono per il mercato domestico potrebbero essere danneggiate, se per la loro produzione usano input importati il cui prezzo è aumentato. Quanto ogni categoria sarà colpita dipende da una marea di altri effetti (possibilità di rappresaglia, capacità delle imprese di assorbire le variazioni della domanda, struttura industriale, tipo di beni sui quali sono imposti i dazi, e via di seguito). Ma nella maggior parte dei casi una parte sostanziale del costo sarà sopportata dai consumatori e dalle imprese domestiche.

Dazi al servizio della politica industriale

Questo non vuol dire, tuttavia, che i dazi siano da escludere nel valutare la risposta alle politiche aggressive di Trump. Come già discusso in passato dal Diario Europeo e ricordato nei giorni scorsi dall’economista di Harvard Dani Rodrik su Project Syndicate, i dazi possono essere un efficace strumento di protezione selettiva dei mercati da utilizzare per fini di politiche industriali o sociali.

Ad esempio, per favorire, congiuntamente ad investimenti e incentivi, lo sviluppo di capacità produttiva domestica in settori o in regioni strategici dal punto di vista geopolitico, come i semiconduttori; o per recuperare un ritardo tecnologico, come nel caso delle tecnologie green e digitali. Rodrik fa l’esempio della Corea negli anni Sessanta e della Cina negli anni Novanta del secolo scorso, in cui le politiche protezionistiche erano state parte di una ben più articolata politica di sviluppo incentrata sulla protezione dell’industria nascente (infant industry).

Ancora, nei casi di grande eterogeneità territoriale, proteggere con i dazi la produzione localizzata nelle regioni più povere (ad esempio il nostro Mezzogiorno) può aiutare nelle politiche di coesione. Detto altrimenti, i dazi impongono un costo all’economia domestica che può valer la pena di sostenere, se sono utilizzati in modo selettivo, congiuntamente ad altre misure, al servizio di obiettivi di politica industriale.

La conclusione sembra quindi molto chiara: l’Europa deve prendere atto di essere in un contesto geopolitico non cooperativo, se non addirittura ostile, definire chiaramente le proprie priorità in termini di crescita e trasformazione strutturale, e poi utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, tutti, per perseguire i propri obiettivi. Il tempo delle pacche sulle spalle è finito.

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