Uber contro Europa. Ma anche capitalismo anglosassone contro capitalismo renano. C’è una visione del lavoro completamente diversa dietro la strenua opposizione della società californiana alla proposta di direttiva europea che regola il lavoro gestito attraverso piattaforme digitali.

L’ultimo attacco è stato lanciato mercoledì 20 dalle colonne del Financial Times: in un’intervista al quotidiano britannico Anabel Díaz, responsabile della divisione mobilità di Uber in Europa, ha esortato i legislatori che stanno discutendo in questi giorni la direttiva, a preservare quello che lei descrive come il desiderio di flessibilità dei lavoratori autonomi. La manager sostiene che se le norme venissero approvate così come sono formulate adesso, Uber sarebbe costretta a chiudere in centinaia di città ad aumentare i prezzi fino al 40 per cento.

In effetti la direttiva sulla cosiddetta gig economy, cioè consegne a domicilio, noleggio con conducente, fornitura di baby sitter e altri mestieri svolti attraverso piattaforme digitali, rappresenta una rivoluzione. Prevede infatti che i lavoratori delle piattaforme siano da considerare dipendenti e non più autonomi, con l’applicazione delle relative tutele legali, previdenziali e retributive. Ma a condizione che si verifichino almeno tre dei sette criteri indicati nella direttiva, come l’imposizione da parte della piattaforma di limiti massimi di stipendio, la limitazione della facoltà di scelta degli orari di lavoro e dei giorni di assenza, l’obbligo di un abbigliamento specifico, la supervisione del lavoro, la restrizione alla possibilità di rifiutare incarichi o di svolgere prestazioni per la concorrenza.

Nell’Unione europea operano circa 500 piattaforme di lavoro digitali. Secondo le analisi della Commissione, società come Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber, Bolt, Freelancermap, Helpling, impiegano in Europa 28 milioni di persone e questo numero salirà fino a 43 milioni entro il 2025. Tra il 2016 e il 2020 le entrate di questo settore sono quasi quintuplicate, passando da 3 a 14 miliardi di euro. Il 90 per cento dei rider e degli autisti è rappresentato da lavoratori autonomi che guadagnano in un caso su due meno del salario minimo e che non sono retribuiti per le ore passate in attesa di un incarico.

La Commissione stima che almeno 5 milioni di addetti alla gig economy sarebbero di fatto dei dipendenti travestiti da autonomi. E dunque avrebbero diritto a pensione, assicurazione sanitaria, congedi di malattia pagati e alle altre tutele previste dalla legge. In Italia Uber aveva lanciato il servizio di consegne di cibo a domicilio Uber Eats nel 2016 per poi chiuderlo nel giugno scorso, a causa degli scarsi risultati ottenuti: il sindacato ha lamentato che i rider si sono trovati senza più un lavoro, senza ammortizzatori sociali e senza alcun sostegno pubblico per un’eventuale ricollocazione.

«Se Bruxelles obbliga Uber a riclassificare gli autisti e i corrieri in tutta l'Unione europea» ha avvertito Díaz «potremmo aspettarci una riduzione del 50-70 per cento del numero di opportunità di lavoro con la cessazione dell'attività di Uber in centinaia delle tremila città dell'Ue che oggi serve». Parlando al Financial Times, Díaz ha sottolineato che Uber è «sinceramente impegnata nel modello sociale europeo», ma ha ricordato che quando sono state emesse sentenze che classificano gli autisti come dipendenti in Spagna e a Ginevra le conseguenze sono state perdite di posti di lavoro «devastanti».

In realtà il primo obiettivo dell’Unione europea è cercare di mettere un po’ di ordine in un settore che viene regolato in modo molto diverso da Paese a Paese. Giusto per rimanere nel mondo Uber, in Germania la multinazionale americana ha dovuto stipulare dei contratti con società che a loro volta assumono i propri autisti, per poter operare secondo le regole locali. In Italia i guidatori hanno la partita Iva e sono a tutti gli effetti degli autonomi. Nel Regno Unito gli autisti Uber sono definiti «lavoratori», il che dà loro diritto a benefici come il pagamento delle ferie e dei congedi per malattia, pur non avendo lo status di dipendenti.

Anche Just Eat, azienda con sede ad Amsterdam e presente in venti Paesi, adotta soluzioni diverse a seconda della nazione in cui opera: in Italia i suoi 2.500 rider sono assunti come dipendenti, così come nei Paesi bassi e in Germania; nel Regno Unito era stato lanciato un modello simile, affiancato alla modalità di lavoro autonomo, ma è stato chiuso; in Francia convivono sia i contratti da dipendenti sia quelli da freelance.

Ma a differenza di Uber o della maggioranza delle aziende della gig economy, Just Eat è convinta che la strada da seguire sia proprio quella indicata dall’Europa: «La scelta di assumere i nostri rider è stata dettata dai buoni risultati ottenuti nei Paesi bassi e in Germania» spiega Daniele Contini, country manager della piattaforma di food delivery. «Certamente c’è un impatto sui costi e corriamo il rischio di essere messi in difficoltà da società che hanno spese del personale più basse. Ma andiamo avanti con il nostro modello in attesa di una normalizzazione del sistema a livello europeo. Siamo favorevoli alla normativa, sperando che non si apra qualche scappatoia per chi vuole risparmiare sul personale».

Il Consiglio europeo ricorda che «spesso le autorità nazionali faticano ad accedere ai dati sulle piattaforme digitali e sulle persone che lavorano tramite le stesse. Ciò è ancora più difficile quando le piattaforme operano in diversi Stati membri, il che rende poco chiaro dove e da chi viene svolto il lavoro mediante piattaforma digitale». La direttiva si pone dunque l’obiettivo di aumentare la trasparenza delle piattaforme digitali obbligandole a mettere a disposizione delle autorità nazionali informazioni chiave sulle loro attività e sulle persone che lavorano tramite le stesse. Ed eventualmente assumere chi ne ha diritto.

Aumenteranno i prezzi dei servizi, come prevede Uber? È probabile, ma è giusto trovare un equilibrio tra le esigenze del consumatore che vuole tutto, subito e a poco prezzo, e la dignità del lavoro.

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