Il premier ucraino Volodymyr Zelensky aveva chiesto ai capi di stato e di governo europei di premere quello che viene considerato “il pulsante nucleare” contro la Russia, cioè l’esclusione delle sue istituzioni finanziarie dal sistema di pagamenti telematici Swift. Resterà deluso. L’accordo a Bruxelles non si è trovato. Biden nel suo discorso alla nazione ha detto semplicemente: «Per ora non è previsto». Peserebbe il no della Germania di Olaf Scholz e anche la contrarietà dell’Italia, in conflitto con la linea di Polonia e paesi baltici e fuori dall’Ue, il premier britannico Boris Johnson. Il tema, trapela dai funzionari europei, resta comunque sul tavolo.

La presidente della Commissione Ursula Von der Leyen aveva annunciato un aumento della forza di reazione dopo la debolezza del primo pacchetto e gli alleati si sono mossi nella stessa direzione. Londra prima ha varato sanzioni definite deboli persino da alcuni dei banchieri che Johnson ha incontrato, poi ha annunciato la messa al bando di tutte le banche russe dal mercato londinese, oltre che della compagnia Aeroflot, limiti all’uso dei conti bancari britannici per i cittadini russi e sanzioni su un centinaio tra aziende e personalità russe.

La linea europea

Anche la lista nera europea sarà composta da centinaia di nomi: un pacchetto che i diplomatici di Bruxelles hanno definito «massiccio», con misure soprattutto di natura finanziaria, ma che comprenderanno limitazioni pesanti per il settore della difesa, e mirano anche al controllo dell’export e dei trasporti. Sì, ma il gas? Per il settore energetico, le sanzioni si limiterebbero per ora al trasferimento tecnologico. E del resto, sempre al gas e alla necessità di pagarlo sono legate le titubanze sull’esclusione della Russia da Swift. Le misure concordate da una coalizione ampia hanno un secondo pilastro che punta a estromettere la Russia dall’acquisizione di tecnologie innovative. Obiettivo facile se il mondo fosse unipolare, più difficile da raggiungere considerando che l’alleato di Vladimir Putin si chiama Xi Jinping.

Metà del mondo

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato nuove sanzioni, che includono altre quattro banche, compresa la Vtb del Cremlino, e il bando dell'export dell’high tech verso la Russia, che fermerebbe metà delle importazioni tecnologiche verso Mosca. La coalizione di stati che ha deciso le sanzioni rappresenta metà dell’economia globale, ha detto Biden. Metà appunto del mondo, poi c’è l’altra metà. Il Global Times, il quotidiano in lingua inglese del partito comunista cinese, ieri ha sostenuto apertamente che le sanzioni occidentali non saranno efficaci, citando anche il fatto che diverse banche russe utilizzano sistemi di pagamento indipendenti «grazie alla cooperazione con la Cina».

Ieri, la Banca centrale russa ha comunque annunciato un intervento, come era successo solo ai tempi dell’occupazione della Crimea, per fermare il crollo del rublo. Quindi più difficoltà nelle importazioni e nei pagamenti dei debiti in valuta estera per le società russe, i cui indici ieri sui mercati americani e britannici si sono quasi dimezzati, perdendo il 45 per cento. Il Cremlino, tuttavia, sembra essersi in parte preparato. Dal 2014, ai tempi dell’occupazione della Crimea e del pacchetto più duro di sanzioni messo in campo dagli Stati Uniti e Ue, la Russia ha accumulato riserve per un controvalore di oltre 500 miliardi di euro in valuta estera e oro (il bene rifugio per eccellenza pesa per il 25 per cento).

Da dicembre la banca centrale ha anche quasi raddoppiato gli scambi rubli dollari, per potere sostenere l’aumento dei debiti delle banche private, provocato dal calo del rublo.

Le destinazioni dell’export russo sono in parte cambiate, anche qui guardando a Pechino: nel 2020 il valore delle esportazioni verso la Cina era pari a più del doppio di quelle del secondo partner, la Gran Bretagna, la Germania è terza. Si tratta soprattutto di gas e petrolio, ma pure di grano e di palladio, uno dei tanti metalli necessari ai nostri telefonini, di cui è il primo produttore al mondo.

Quelle di Putin quindi non sono solo mosse di contenimento di una crisi improvvisa, ma una strategia economica messa come faceva notare anche il New York Times, messa a punto ormai da otto anni, ma che non ha certo evitato all’economia russa un crollo del Pil che nel 2020 aveva registrato un tracollo del 35 per cento rispetto al picco del 2013.

L’impatto

Il problema, però, è quanto questo possa influenzare concretamente il regime di Putin, come sottolinea un rapporto del 2021 dell’Atlantic Council che fa proprio il punto sull’impatto delle sanzioni occidentali considerandole comunque nel complesso efficaci.

Il titolo – «L’impatto delle sanzioni occidentali sulla Russia e come possono essere più efficaci» – è rivelatore però che qualcosa nel meccanismo non funziona. Un esempio per tutti: le sanzioni all’oligarca Oleg Deripaska, proprietario della Rusal, la seconda azienda di alluminio al mondo, comminate senza consultazione con i partner europei, anche quelli come Irlanda e Svezia che ospitavano le sue aziende. Risultato? Dopo dieci mesi di negoziati le misure sono state allentate. Lo stesso è stato fatto per le sanzioni sulla sua società automobilistic, la Gaz, che aveva una Joint venture con la tedesca Volkswagen.

In una prospettiva globale per la Russia vale la definizione dell’economista di Harvard, Jason Furman: «È fondamentalmente una grande stazione di servizio». Il problema è chi utilizza quella stazione di servizio.

 

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