Il taglio del cuneo fiscale da anni è considerata la panacea per far fronte all’alto costo del lavoro e al ristagno degli stipendi italiani. Così anche il governo Meloni, nel suo primo Documento di economia e finanza annuncia tre miliardi di euro da destinare al taglio del 3 per cento della parte contributiva degli stipendi di lavoratori dipendenti fino a 25mila euro, e del 2 per cento per gli stipendi tra i 25 e i 35mila euro. Secondo calcoli del Sole24ore si tratta di 41 euro al mese in più per gli stipendi (lordi) fino a 25mila euro e 30 euro per la fascia successiva fino ai 35 mila euro, rispettivamente 500 e 350 euro circa. E un’inflazione al 5/6 per cento diminuisce ancora di più il valore degli aumenti in busta paga.

«Se l’obiettivo è quello di combattere l’inflazione, ovviamente, siamo lontani – spiega il professor Paolo Santucci De Magistris, direttore del Dipartimento di Economia e finanza dell’università Luiss - Forse questo non è nemmeno lo strumento ideale, casomai potrebbe essere una misura di natura strutturale ma avrebbe bisogno di maggiori finanziamenti».

«È vero che questa riduzione del 3 per cento e 2 per cento sarà un mancato introito, ma dato che ci si era dati come deficit target il 4,5 per cento adesso siamo al 4,35 per cento c’è un piccolo margine di manovra e si è deciso di puntare le fiches su questa misura che in qualche modo aiuta perché abbiamo uno dei cunei fiscali più alti al mondo», aggiunge il professore.

L’Italia è al quinto posto in Europa per peso del cuneo fiscale prima ci sono Belgio, Francia, Germania e Austria, ma naturalmente la vera differenza è sui salari che vedono Roma all’ultimo posto.

Alternativa agli aumenti

«Le risorse che il governo mette sulla riduzione del cuneo fiscale sono estremamente contenute – dice Alessandro Santoro, professore di Economia e Finanze all’Università Milano Bicocca – l’impatto ho paura che sarà altrettanto limitato». Inoltre, continua Santoro, ci sono modi e modi di attuare una riduzione del cuneo: quello che ha adottato il governo Draghi e che sembra lo stesso metodo del governo Meloni è quello di tagliare la aliquota contributiva dei lavoratori fino a una certa soglia di reddito.

«Ha il vantaggio della semplicità e di poter essere concentrato su un plateau limitato di contribuenti, il problema è che una cosa è ciò che viene determinato per legge e una quello che accade nella dinamica del mercato del lavoro. In passato le decontribuzioni sono state utilizzate dalle imprese in fase di contrattazione per evitare di alzare gli importi lordi».

Una decontribuzione per la pace sociale? Ovvero se il governo concede il taglio poi il sindacato non può chiedere aumenti delle retribuzioni eccessive? «È una sorta di fiscalizzazione di quello che dovrebbe essere l’adeguamento retributivo – conferma Santoro – anziché farlo dal lato della remunerazione, quindi a carico dei datori di lavoro e quindi a detrimento della produttività netta, lo si fa a carico dello stato».

Mobilitazioni confermate

Tra i sindacati oggi è solo Pierpaolo Bombardieri segretario generale Uil a parlare, in un incontro a Falconara Marittima. «Appena avremo i testi a disposizione - ha dichiarato Bombardieri - verificheremo, nel dettaglio, cosa significano i 3 miliardi per il taglio del cuneo fiscale previsti nel Def e che impatto concreto avranno sulle retribuzioni». Resta, comunque, il problema del mancato rinnovo dei contratti. «Il governo – continua il leader della Uil - dovrebbe intervenire per detassare gli aumenti contrattuali sia di primo sia di secondo livello». Il sindacato ha confermato quindi le mobilitazioni di maggio di Cgil, Cisl e Uil, per la piattaforma unitaria su lavoro, fisco e previdenza.

«Non abbiamo ancora il documento completo quindi non possiamo essere certi da dove arrivano questi tre miliardi – dice Maurizio Franzini, professore di Economia politica alla Sapienza e del Forum Diseguaglianze e Diversità – potrebbero venire da tagli alla sanità o alle pensioni. E anche se ci fosse un ‘tesoretto’ per quest’anno: gli anni prossimi? Vanno trovate entrate alternative e le previsioni del deficit futuro non sono positive in particolare se torna il patto di stabilità che impone il rapporto del 3 per cento tra deficit e Pil«.

L’inflazione però potrebbe aiutare. «L’inflazione – spiega Santucci De Magistris – ha un effetto positivo sui conti pubblici, con l’inflazione il valore del Pil aumenta e il margine con il debito pubblico migliora. Questo potrebbe dare qualche margine di manovra anche in futuro». «Si punta sempre su un aumento del deficit – afferma invece la professoressa Annalisa Rosselli di Storia dell’Economia dell’università Tor Vergata - Non sono fautrice dell’austerità, ma teniamo conto che stiamo pagando 100 miliardi di interessi l’anno. In parte vanno nelle tasche degli italiani o delle banche o anche all’estero, ma certamente non vanno nelle tasche dei più bisognosi».

«Certo se sapessi che questi tre miliardi vengono da recupero dell’evasione fiscale o da una tassazione più equa mi andrebbe bene», continua la professoressa, altrimenti ci sono altre conseguenze. «Se io metto poche decine di euro in tasca al lavoratore ma poi questo deve spenderne 250 per un’ecografia urgente da un privato perché in un ospedale pubblico non c’è posto, mi sembra ovvio che è un conto a perdere».

© Riproduzione riservata