Il Documento di economia e finanza (Def) varato martedì sera è il quadro contabile nel quale il governo intende inscrivere i provvedimenti di spesa e di entrata che formulerà nella legge di bilancio. L’unica variabile veramente indipendente che decide è il disavanzo pubblico nonché la stima del suo impatto sulla previsione del Pil e quindi sul rapporto debito/Pil. Dopodiché, la coerenza dell’insieme delle previsioni numeriche del Def è assicurata da calcoli che riflettono previsioni internazionali e correlazioni statistiche. La vera decisione è sul disavanzo: non sulla spesa pubblica o il gettito fiscale, che risulteranno dai provvedimenti da progettare e dalla legge di bilancio, ma sulla differenza fra i due, cioè la spesa da coprire con debiti.

Verso un avanzo primario

La decisione sul disavanzo è però molto condizionata: se troppo alta troverebbe censure a Bruxelles, come successe al governo Conte; se troppo austera incontrerebbe ostacoli in parlamento. Non solo: dopo tanti anni in cui il conto degli interessi da pagare sul debito passato non dava problemi, dato il livello molto basso dei tassi, ora comincia a darli. Con la politica monetaria che sta normalizzandosi, gli interessi passivi incomprimibili occupano spazio crescente nelle spese e dunque nel disavanzo.

L’82 per cento in interessi

I numeri fanno impressione: nel 2021 gli interessi passivi furono il 49 per cento del disavanzo, l’anno scorso il 55 per cento, quest’anno sono previsti pari all’82 per cento del deficit complessivo e con l’anno prossimo cominceranno a superarlo, costringendo a tornare piuttosto bruscamente a un avanzo “primario”, cioè al netto degli interessi. Nel 2026 è previsto giungano al 180 per cento del disavanzo, con l’avanzo primario al due per cento del Pil nel 2026, sui livelli che ebbe negli anni prima della pandemia. Speriamo che un aggiustamento del genere sia considerato adeguato dal nuovo Patto di stabilità e crescita che si sta riformulando nell’Ue.

Speriamo soprattutto che il governo sia in grado di specificare presto una vera e chiara strategia con la quale intende legiferare sulla sostanza delle spese delle entrate dei prossimi bilanci in modo che siano compatibili con quell’aggiustamento.

Si tratta anche di ammettere che l’abbuffata di debito fatta in passato non è sostenibile in futuro se non con politiche radicalmente diverse, smettendo sussidi e bonus e riformulando strutturalmente le spese e le entrate in modo da ridurre il peso del debito rispetto a un Pil che da quella riformulazione deve venire credibilmente stimolato, con un’allocazione delle risorse che incentivi ed esalti la produttività del lavoro e del capitale.

Le carenze della spesa pubblica

L’Italia soffre di almeno quattro gravi carenze che non sarà facile sanare tenendo le briglie strette alla finanza pubblica. Quattro capitoli di spesa che sarebbe essenziale riuscire a non sacrificare rimodellando radicalmente la struttura del bilancio pubblico. Innanzitutto sanità e scuola, capitoli nei quali si insiste a non concentrarsi quando è da questi che dipende il benessere di fondo e il futuro della collettività, soprattutto della sua parte più debole. In secondo luogo, gli investimenti per la trasformazione energetica e la politica climatica, con o senza i fondi europei. E poi, come dimostra anche l’incaglio del Pnrr, la profonda riqualificazione dell’impiego pubblico, che richiede retribuzioni più incentivanti e nuove competenze più costose.

Quando verrà diffuso il testo completo del Def, oltre a conoscere gli intervalli di confidenza e le analisi di sensitività agli shock che accompagnano le previsioni in un clima globale di notevole incertezza, avremo forse qualche informazione in più sui provvedimenti che il governo pensa di mettere in programma. Per ora, nella comunicazione del governo circa il Def, c’è solo un accenno di rilievo: un ulteriore taglio del cuneo fiscale, limitato al periodo maggio-dicembre di quest’anno, cifrabile in «oltre tre miliardi».

Per dare un’idea di concretezza strategica nonché di robustezza politica della maggioranza, e per cominciare a programmare sul serio la politica economica dei prossimi anni, il governo potrebbe andare oltre in questo tipo di misura, come ha suggerito fra gli altri Confindustria: ampliando il taglio del cuneo, per ora davvero modesto, e rendendolo strutturale, così da essere davvero influente sugli equilibri del mercato del lavoro. Magari finanziandolo con un inizio graduale ma significativo di spending review e un avvio serio di riforma fiscale, che non premi l’evasione e ristrutturi vantaggiosamente le imposte sui patrimoni.    

© Riproduzione riservata