Se toccasse a Mario Draghi dare le pagelle ai ministri del suo governo non avrebbe dubbi. Nei giorni in cui una parte dei collaboratori di Palazzo Chigi tesseva il disegno del suo passaggio al Quirinale, poi sprofondato nei gorghi del parlamento, lui pensava a un suo successore alla guida dell’esecutivo.

Sulla base degli obiettivi realizzati, è la convinzione dei collaboratori più stretti del premier, il ministro della transizione digitale Vittorio Colao sarebbe stato la migliore garanzia per il successo. Successo misurato essenzialmente su un solo parametro: la realizzazione del piano nazionale di ripresa e resilienza, che è poi quel programma ristretto di legislatura che sembra essere l’unico punto su cui poter far convergere la sempre più fragile maggioranza Draghi. Ed è proprio qui che viene il problema, perché diversi ministri politici del governo hanno con Colao un rapporto teso e difficile.

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Il ministro allo Sviluppo leghista, Giancarlo Giorgetti, ha fatto anche il suo nome nel lungo colloquio con il suo leader Matteo Salvini al termine dell’estenuante settimana in cui la politica ha dichiarato il suo fallimento. E il nome di Colao nella lista nera del ministro dello sviluppo indebolisce l’appello leghista per evitare sgambetti tra i partiti al governo.

Difficile pensare potesse essere altrimenti se proprio Draghi, il più politico dei tecnici, è stato prima accolto tra le lusinghe e poi platealmente rigettato dalle forze politiche nel momento della scelta della presidenza della Repubblica. Con Colao, considerato ancora più alieno, nella settimana precedente alle votazioni per il Quirinale c’è stata una sorta di prova generale di quello che sarebbe poi successo a Draghi. Una sua premiership è stata bollata a destra e sinistra, semplicemente come «impraticabile».

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Con Giorgetti il rapporto è obbligato e complicato. Il leghista ha un portafoglio e una struttura ministeriale rodata, mentre Colao non ha né l’uno né l’altra. È a capo di un dicastero che praticamente non esisteva e che ha messo in piedi prendendo pezzi di qua e di là. Il suo capo di gabinetto, Stefano Firpo, viene proprio dal Mise: è stato l’uomo di Industria 4.0 di Carlo Calenda. Prima una carriera ai vertici della Intesa San Paolo dell’amico di Colao, Corrado Passera, che ha fatto approdare Firpo al governo come capo della sua segreteria tecnica nel suo breve periodo da ministro. Passera è passato e Firpo è rimasto al ministero fino alla fine dell’era Gentiloni. Come vice capo di gabinetto, Colao ha scelto Fabrizio D’Alessandro magistrato che poco prima della nascita del governo Draghi era stato nominato responsabile della protezione dei dati personali per il Consiglio di stato e tutta la giustizia amministrativa. Alcuni dirigenti sono stati assunti dall’esterno, tra lo stupore dei frequentatori dei palazzi romani, senza che il ministro li conoscesse.

Metodo aziendale – si lavora per progetti – applicato a un ministero: l’inizio è stato un braccio di ferro interno quotidiano, col calendario del Pnrr a segnare inesorabilmente il tempo che scorre. Fuori le incomprensioni si sono stratificate.

L’opposto di Giorgetti

Tutti coloro che hanno avuto a che fare con i ministeri di Giorgetti e Colao riferiscono unanimemente che i due non si sono mai presi. C’è chi li arriva a definire gli esatti opposti. Il bresciano ex capo globale di Vodafone è abituato ad inanellare obiettivi ed è rigido nelle sue convinzioni, il leghista da Cazzago Brabbia, invece, ha l’incedere democristiano: elargire assensi a tutti, senza che i suoi sì si trasformino poi in azione. Giorgetti non avrebbe nemmeno completato tutte le strutture tecniche da mettere in piedi per il Pnrr. La direzione dell'unità di missione per il piano è stata affidata al vice capo di gabinetto Simone Vellucci il 5 gennaio.

Colao ha i numeri dalla sua. Ha già impiegato formalmente quasi la metà dei fondi di sua competenza. I documenti interni al ministero indicano 16 riforme approvate finora, che vanno dalle firme digitali per il referendum alla strategia sull’intelligenza artificiale ai nuovi servizi sulla AppIo.

In realtà le sfide più complesse arrivano ora: le gare per la banda larga – pubblicata il 15 gennaio quella che dovrebbe portare la fibra a sette milioni di cittadini dimenticati dagli investitori privati - il cloud per la Pa e la telemedicina valgono da soli circa 16 miliardi.

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Al ministero della Salute, però, la squadra di Colao ha fatto difficoltà a trovare un interlocutore che sapesse discutere seriamente di transizione digitale. Anche se molta parte della riforma sanitaria del Pnrr si basa su una scommessa sulla digitalizzazione che, tra le altre cose, dovrebbe contribuire ad abbassare gli accessi ai pronto soccorso facendo risparmiare sulla spesa ordinaria.

Con il ministero della pubblica amministrazione, problema diverso: l’attivismo di Colao sulla grande partita dei servizi per la Pa non è stato molto apprezzato dalle parti del ministero guidato dal forzista Renato Brunetta che avrebbe voluto essere maggiormente coinvolto. Il nome di Colao, poi, non piaceva nemmeno a un altro capo delegazione pesante come il democratico ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini.

Super consulente

Il giudizio è concorde: una macchina da guerra sulle realizzazioni, ma con poca conoscenza delle dinamiche della macchina dello stato e il carattere è quello che è. Che, tradotto, significa poco malleabile. Il manager che dalla Omnitel ha scalato la Vodafone fino a diventare il capo a livello mondiale, stipendio annuo da circa 17 milioni di euro di cui faceva difficoltà a parlare e sulla cui eticità discuteva con la moglie “di sinistra” come ammise anni fa in una intervista a Panorama, è abituato schiettamente a comandare.

Lo dice chi ci ha lavorato insieme, aggiungendo che al contrario di molti suoi colleghi di quel livello non è «per nulla stronzo». Ma l’abitudine a comandare non è un atteggiamento per forza apprezzato, soprattutto se espresso con sincerità.

Eppure Colao, da ciclista e surfista appassionato, sa benissimo gestire i limiti e interpretare i ruoli che gli vengono affidati all’interno di spazi chiaramente definiti.

Durante le convulsioni del governo Conte numero due, accusato dagli avversari politici di non essere in grado di stendere il Pnrr, è stato chiamato a elaborare un piano di riforme a cui ispirarsi. Si è prestato al rituale bizantino organizzato in gran spolvero a Villa Pamphili, ha presentato 102 proposte, ha detto che si sarebbe ritenuto soddisfatto se ne avessero prese in considerazione 40 e, finito il lavoro non ha mai pronunciato parola sul fatto che la politica lo avesse in gran parte accantonato. Anzi, nei mesi seguenti, quando gli si faceva notare il trattamento ricevuto, riconosceva all’esecutivo Conte di aver attuato alcuni dei suoi suggerimenti seppure senza dargliene la paternità. Il suo ruolo era quello e tanti saluti.

L’idea di Conte di chiamarlo come super consulente è stato un guizzo brillante: la rassegna stampa della primavera 2018, dei giorni in cui Colao lasciava il vertice di Vodafone poco prima che l’avvocato facesse il suo primo imprevedibile ingresso sulla scena politica italiana, certifica che era già considerato un possibile premier tecnico.

Non lo è mai diventato, ma nel giro di qualche anno un altro premier tecnico, Draghi, lo ha chiamato alla guida di un ministero e allora le cose cambiano. I limiti li decide la Costituzione e il programma è il nostro vincolo esterno, un Pnrr a cui oltre al destino dell’Italia sembrano legati anche i futuri assetti europei.

C’è un episodio nella vita di Colao che anche se lontano dal mondo della politica romana ha alcuni tratti profondamente comuni alle fibrillazioni di questi mesi. Ed è la sua permanenza per due anni come amministratore delegato di Rcs. Colao era stato chiamato come risanatore, fu cacciato rapidamente come un corpo estraneo, tra le altre cose dopo essere stato oggetto di hackeraggio da parte degli spioni della Telecom. Secondo le ricostruzioni di Massimo Mucchetti, ex giornalista che allora al Corriere lavorava e che assieme a Colao fu spiato, la spinta venne dall’allora potente Cesare Geronzi, ma anche da Diego Della Valle e Marco Tronchetti Provera allora presidente di una Telecom che lui stesso aveva zavoratto di debiti al punto da vedere in Colao persino un possibile diretto competitor.

Nel suo libro intervista a Geronzi, Mucchetti gli ricorda la richiesta del banchiere all’allora ad di Rcs di fare una telefonata di conciliazione a Totò Cuffaro, telefonata che Colao non fece mai. Geronzi, da parte sua, riconosce l’errore di aver cacciato Colao con una argomentazione memorabile: «La costituency del Corriere non era ancora pronta per un manager di quel livello». Ti tradisco perché ti meriti di meglio.

La cacciata di Colao dei capitani di impresa e di ventura attovagliati attorno al Corriere è passata alla storia, tanto che quando qualche anno dopo Geronzi tentava di silurare il suo secondo Matteo Arpe, lui si apprestava alla battaglia dicendo: «Non farò la fine di Colao».

Quella fine però si è tradotta in una fortuna. Letteralmente. Circa 75 milioni di euro il reddito accumulato dal manager negli anni da capo di Vodafone, grazie soprattutto a parte variabile e incentivi legati ai risultati. A marzo 2021 una volta diventato ministro, Colao ha venduto anche tutte le stock option e le ha fatte vendere anche alla moglie –, una scelta obbligata e comunque non così svantaggiosa considerando che da quando ha lasciato l’azienda il titolo continua a scendere.

Ancora nel 2020 il manager cresciuto alla scuola McKinsey aveva un reddito da venti milioni di sterline. Della sua vita precedente, il ministro eredita una rete di conoscenze nelle grandi imprese senza pari e una capacità di suggerire manager per i board di nomina politica a molti indigesta.

L’ex numero uno di Microsoft Italia, Silvia Candiani, entrata nel board di Ferrovie dello stato e poi rapidamente dimessa, è stata assunta da lui in Vodafone. In Italtel e Vodafone è cresciuta anche l’ex ceo di Zurich Connect, Angela Cossellu, scelta come amministratrice delegata di Eur Spa, società di punta della galassia solitamente invalicabile del business della cultura della Capitale.

Cloud e rete

Con Draghi Colao condivide la poca disponibilità a discutere le sue scelte sui media, anche quando si tratta di questioni di primario interesse pubblico.

Ettore Ferrari/POOL Ansa/LaPresse

Quando si è ritrovato a gestire il complicato dossier del cloud nazionale, lamentandosi con questo giornale ha negato che ci fossero problemi con il Cloud Act americano, legislazione che estende il controllo statunitense sui cloud provider americani anche al di fuori dei confini americani. Poi ha ammesso con altri cronisti che i suoi uffici stavano analizzando tutte le implicazioni della legge. Al Festival dell’Economia ha spiegato stizzito a una giornalista esperta di affari esteri e non di tecnologia che il sistema della doppia crittografia dei dati scelto per proteggere i dati italiani sgombrava il campo dai problemi e nell’ultima audizione di fronte al parlamento ha spiegato che il tema è stato troppo drammatizzato.

Eppure è da anni che la Commissione europea cerca di risolvere le differenze di tutele tra le due sponde dell’Atlantico senza trovare granché di soluzioni. Il nodo certo è complesso. Anche i francesi dopo anni di annunci sul cloud sovrano si sono arresi al fatto che le loro imprese per non arretrare dal punto di vista tecnologico hanno scelto partnership con società statunitensi: la loro soluzione è stata imporre a Google la creazione di una società di diritto locale «per soddisfare i requisiti del governo francese», come ha spiegato di recente Samuel Bonamigo, vicepresidente Southern Europe di Google Cloud.

Da noi è stata scelta un’altra formula. Il bando italiano per il Polo strategico nazionale dei dati pubblicato da Difesa Servizi Spa venerdì scorso assume come punto di partenza il piano presentato dalla cordata Tim, Leonardo, Cdp e Sogei che si appoggia per servizi diversi alle tecnologie di Google – partner di Tim – Microsoft – partner di Leonardo – e Oracle.

La concessione per i costruttori della nuova infrastruttura durerà 13 anni, un tempo adeguato ma in cui purtroppo non è detto che i provider europei riescano a mettersi al passo con quelli statunitensi.

La scadenza per le offerte è a marzo, anche se considerato che lo stesso bando si basa sul progetto di uno dei competitor molti considerano l’esito scontato.

Le scadenze del 2022

Sempre a marzo dovrebbe essere pubblicato il bando per le reti mobili 5G: valore due miliardi. Per lo stesso mese è prevista la messa a punto della piattaforma di telemedicina, a cui seguiranno le gare a giugno, e l’attuazione del fascicolo sanitario elettronico. Ad aprile dovrebbero essere pubblicati gli avvisi per la migrazione del cloud di enti locali e scuole. In generale il ministero farà piovere sui comuni fondi per tre miliardi.

A dicembre è iniziata anche la sperimentazione della piattaforma nazionale dati: dovrebbe permettere alle pubbliche amministrazioni di scambiarsi dati in sicurezza, ad ora un miraggio: il lancio ufficiale è previsto a giugno.

La tabella di marcia del sottotenente dei carabinieri Colao è marziale. E per l’ennesima volta si incrocia con i destini di Telecom diventata Tim, ma sempre in crisi e alle prese con il suo debito monstre. I problemi interni dell’ex monopolista hanno ricadute concrete per i cittadini: alle società della rete mancano, ha spiegato lo stesso Colao in parlamento, 10 mila tecnici: in parte si tratta di scarsità di risorse umane, in parte di «scarsi investimenti in formazione da parte delle aziende, soprattutto nel passaggio dal rame alla fibra».

La scelta del ministro di svincolarsi dal progetto rete unica tra Tim e Open Fiber è stata probabilmente la più saggia. Il nuovo piano di Tim con la divisione tra la rete e i servizi (Cloud compreso) va in quella direzione, ma la possibilità di creare valore da una rete unica tra Tim e OpenFiber dipende tutta dai tempi. Se arriva troppo tardi, la duplicazione della rete sarebbe già in stato avanzato, almeno il governo, seppure azionista di primo piano con Cdp, non sarebbe del tutto complice dell’operazione.

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