Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla ventottesima edizione dello European Focus!
Sono Alicia Alamillos, la caporedattrice di questa settimana, e scrivo da Madrid.
Durante la sua visita a Pechino, il presidente francese Emmanuel Macron ha innescato uno scandalo con le sue osservazioni riguardo alla posizione dell’Europa sulla Cina, e alla necessità di trovare una rotta diversa rispetto alla posizione conflittuale degli Stati Uniti nei confronti di Pechino.
Se è vero che queste dichiarazioni sono state fatte in un momento poco opportuno, d'altra parte la questione che Macron ha sollevato è in sé importante: l’Europa deve riflettere sul suo rapporto con la Cina, come mi ha detto l’ex segretario generale della Nato per gli investimenti nella difesa, Camille Grand, in una recente intervista.

Forse è un po’ troppo tardi, dato che l’influenza cinese in Europa cresce in molti settori, dall’acquisto di infrastrutture portuali chiave (Germania e Grecia), al collocamento dei propri esperti nelle università europee, alla diffusione della propaganda (soprattutto nei paesi balcanici).
Paesi come la Repubblica ceca e la Lituania, che hanno tentato di fare gesti di avvicinamento a Taiwan, hanno subìto gravi pressioni economiche da parte della Cina.
Nell’edizione di oggi vi presentiamo diverse prospettive su come e quanto l'influenza cinese si avverte già in Europa.
Alicia Alamillos, caporedattrice di questa settimana


Von der Leyen sa cosa vuole. E Scholz?

Il cancelliere tedesco

BERLINO - L’Unione europea non è certo nota per la rapidità o l’arguzia con la quale prende posizione, e questo rende se possibile ancor più sorprendente il suo fermo atteggiamento nei confronti della Cina. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha da tempo chiesto ai 27 stati membri di opporre una maggiore resistenza nei confronti dell’aspirazione al potere di Pechino, e la scorsa settimana ha anche illustrato agli eurodeputati il suo punto di vista su come tutto ciò dovrebbe funzionare.
Con la sua presenza nel Mar Cinese Orientale, la Cina minaccia la democrazia di Taiwan e, nella regione dello Xinjiang, la seconda superpotenza economica mondiale viola sistematicamente i diritti umani della popolazione musulmana, come nel caso degli Uiguri. Con poche eccezioni, l’Ue ha riconosciuto i potenziali conflittuali della “nuova era” proclamata da Xi Jinping.
Mentre Bruxelles, però, ha un piano per quanto riguarda la Cina, Berlino non ce l’ha. Il governo tedesco sta ancora cercando di trovare una nuova strategia sulla Cina. Il cancelliere Olaf Scholz sostiene che dissociare la Germania dalla Cina non è la soluzione giusta, dal momento che la Repubblica Popolare è il maggiore partner commerciale della Germania ed è importante per molte multinazionali tedesche come Volkswagen e Siemens.
Scholz insiste sulla riduzione del rischio tramite la diversificazione. Ma la Germania non è riuscita a diversificarsi in passato. Tutto ciò è diventato chiaro soprattutto nel settore energetico dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Il rischio di diventare dipendenti dagli idrocarburi di Mosca è stato ampiamente discusso dopo l’annessione della Crimea nel 2014, ma invece di diversificare la propria fornitura di energia, la Germania ha permesso che venisse costruito il gasdotto Nord Stream 2.
Il resto è storia. La minaccia di un grave conflitto di interessi, come nel caso di un attacco cinese a Taiwan, è reale e avrebbe conseguenze devastanti per l’economia mondiale. Pertanto, sarebbe utile se Scholz imparasse dagli errori commessi in passato dal suo partito socialdemocratico. Se di fronte alla crescente belligeranza della Cina la politica estera tedesca continua ad assumere un atteggiamento business first, la Germania rischia di ripetere gli stessi errori che ha commesso con l’atteggiamento accomodante nei confronti della Russia.
Viktoria Braeuner si occupa di Asia per Tagesspiegel


Il numero della settimana – 750 milioni

BUDAPEST - Quest’anno Vodafone ha venduto la sua divisione ungherese al proprio partner locale 4iG e allo stato ungherese per 1,8 miliardi di euro, in quella che doveva essere un’acquisizione alimentata dal debito.
I comunicati stampa hanno confermato che 4iG ha ricevuto un prestito di 750 milioni di euro, e sembra che molte delle principali banche che hanno fornito il prestito fossero cinesi.
Nel 2010, il primo ministro Viktor Orbán ha dato il via alla politica di “apertura orientale” per attrarre gli interessi economici asiatici. Da allora, molti progetti sono stati finanziati da denaro cinese, come ad esempio la ferrovia Budapest-Belgrado e una fabbrica di batterie. A Budapest ci sono stati addirittura piani per costruire un campus dell’università Fudan di Shanghai.
Mentre il governo ungherese continua a cercare connessioni con la Cina, i critici temono che ciò possa generare influenza economica e politica da parte di Pechino, non solo in Ungheria ma anche in Unione europea.
Viktória Serdült è una giornalista di HVG


L’università mi ha zittita su Huawei

Il 21 novembre 2019, Erik Puura (a destra), capo dello sviluppo presso l’Università di Tartu e Bin Chang, direttore regionale di Huawei Technologies, hanno firmato un memorandum di intesa al fine di cooperare per sostenere gli studi, la ricerca congiunta e lo sviluppo di infrastrutture. (Foto Università di Tartu)

TALLINN - Nel 2019 studiavo giornalismo e scrivevo per la rivista dell’Università di Tartu, in Estonia, quando mi è capitato di diventare una vittima della censura. Ed ecco come è andata. Anzitutto è accaduto che nel novembre di quell’anno il responsabile della comunicazione dell’università mi ha mandato un’email per informarmi che l’università aveva firmato un memorandum di intesa con il gigante tecnologico cinese Huaweui. L’accordo prevedeva un programma di scambio e la possibilità di ottenere finanziamenti per la ricerca.
L’università stava pubblicizzando l’accordo come un successo, ma io all’epoca ho suggerito piuttosto alla mia caporedattrice che si poteva scrivere un pezzo sui rischi che l’accordo poteva comportare. E lei ha convenuto con me di procedere così. La pubblicazione era concordata per febbraio 2020.
Ma il responsabile della comunicazione dell’università mi ha detto che non sarebbe stato possibile pubblicarla. Non mi era chiaro per decisione di chi, mi era chiaro soltanto che era “qualcuno più in alto”. Le spiegazioni dell’università erano a dir poco vaghe. Il responsabile dello sviluppo dell’università sosteneva che fosse accettabile pubblicare l’articolo in un giornale nazionale, ma non nella stampa dell’università. Secondo lui, il giornale universitario non era il luogo giusto per le critiche. Per me suonava incomprensibile: un dibattito avrebbe invece mostrato la maturità della nostra università. Ero delusa dal fatto che il mio luogo di studi ignorasse i valori democratici. Una discussione aperta avrebbe permesso di considerare tutti i pro e i contro prima di precipitarsi in una collaborazione che rischiava di essere controproducente.
Possiamo supporre che l’università temesse che Huawei potesse rinunciare all’accordo per via dell’articolo. Ma la censura aveva messo allo scoperto la nostra vigliaccheria: eravamo disposti a rinunciare alla nostra libertà di parola e di stampa. Per me questo era un pericoloso precedente: l’università dimostrava di essere disposta a essere zittita pur di non perdere i fondi.
La mia esperienza è stata particolarmente ironica: nel frattempo stavo scrivendo la mia tesi sull’autocensura nel giornalismo e mi ero ritrovata a essere io stessa un caso di studio. Dopo che un giornale ha scritto della situazione e dopo che la pressione dell’opinione pubblica è montata, alla fine l’università ha messo online il mio pezzo precedentemente censurato.
La pubblicazione di un articolo sulla questione da parte di un giornale e l’aumento della pressione dell’opinione pubblica, l’università ha pubblicato online l’articolo censurato.
Mari Eesmaa è una giornalista di Eesti Päevaleht


I nostri alberi in cambio dei soldi cinesi

Attivisti per l’ambiente trascinati via dalla polizia antisommossa a Novi Sad. Foto Facebook

BELGRADO - Le immagini di donne portate via con la forza stanno diventando virali sui social media. Gli alberi in questione sono stati tagliati per fare spazio a un nuovo investimento: una società statale cinese sta costruendo un ponte nella seconda città più grande della Serbia.
Nell’ultimo decennio c’è stato un aumento significativo della presenza economica della Cina in Serbia. Secondo l’American Enterprise Institute, dal 2010 al 2022 i progetti di investimento e costruzione cinesi in Serbia sono stati più grandi che in qualsiasi altro paese della regione, e sono arrivati a 17,3 miliardi di dollari.
Tutti questi investimenti e progetti di lavori pubblici hanno seguito lo stesso schema: indifferenza per le questioni ambientali, accordi di non divulgazione e condizioni di credito non convenienti per la Serbia.
A ricavarne un guadagno politico sono stati i politici serbi che hanno potuto inserire questi investimenti nel proprio elenco di successi.
Tuttavia, nessuno sa per quanto tempo la Serbia dovrà continuare a pagare i propri debiti relativi a questi progetti di opere pubbliche, quando gli investimenti saranno ripagati e chi ne trarrà effettivamente un beneficio.
Csaba Pressburger è un giornalista di Novi Sad


Cosa ci insegna il caso della Lituania

(Illustrazione El Confidencial)

VILNIUS - La piccola Lituania è stata uno dei primi paesi europei a segnalare i rischi della dipendenza dall’economia cinese. Nel novembre del 2021 lo stato baltico di meno di tre milioni di abitanti si è ritrovata nel bel mezzo di una crisi diplomatica con Pechino, dopo che i cinesi si erano lamentati per l’apertura di un ufficio di rappresentanza taiwanese a Vilnius. Per reazione la Cina ha esercitato pressioni economiche sulla Lituania, ha bloccato le esportazioni lituane e ha avvertito le aziende dell’Ue e degli Usa delle conseguenze che sarebbero derivate dall’uso di prodotti di origine lituana.
Si è trattato di una lotta tra Davide e Golia, ma anche di una prova del nove per valutare le opzioni a disposizione dell’Ue negli anni a venire nell’affrontare la concorrenza crescente della Cina, che sta utilizzando il proprio vantaggio economico per fare pressione su decisioni interne.
La dipendenza della Lituania dalla Cina è relativamente bassa rispetto ad altri paesi europei per quanto riguarda commercio e investimenti. La Lituania ha una grande esperienza nel campo della prevenzione degli investimenti per questioni di sicurezza nazionale; vale per la vicina Russia. La stessa politica può essere applicata alle relazioni con la Cina.
Dopo l’apertura dell’ufficio di rappresentanza, quel che lo stato baltico non aveva previsto era che la Cina prendesse di mira anche le società straniere che hanno rapporti economici con la Lituania e legami commerciali con la Cina, e che avrebbe punito il paese in maniera molto più estesa.
In seguito alla reazione della Cina, l’Ue ha serrato i ranghi con la Lituania, mentre gli Usa hanno sollevato la questione presso l’Organizzazione mondiale del commercio, vincendo alla fine la causa. Grazie alla solidarietà dimostrata dagli altri stati Ue e dai loro alleati, l’incidente dipanatosi tra novembre 2021 e febbraio 2022 ha mostrato all’Ue che i paesi possono prendere decisioni in maniera indipendente dalle pressioni cinesi, e che è possibile resistere alle intimidazioni economiche della Cina.
Fare affari con le autocrazie è un rischio. Ovviamente, la Cina ha un mercato enorme, e chiudere completamente le relazioni con essa non è nell’interesse dei paesi europei. Ma l’esperienza lituana dimostra che l’Ue dovrebbe opporre più resistenza all’idea di essere così tanto dipendente dalla Cina. La Lituania, come altri paesi baltici, ha capito che uno stato non può intavolare legami di natura economica e commerciale senza tenere in conto anche la questione della sicurezza nazionale.
Linas Kojala dirige a Vilnius lo Eastern Europe Studies Centre


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it

Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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