Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla trentaquattresima edizione dello European Focus!
Sono Nelly Didelot, la caporedattrice di questa settimana, e scrivo da Parigi.
La famiglia nella quale sono cresciuta non è convenzionale. Entrambi i miei genitori, durante tutta la loro carriera, hanno scelto di lavorare part time. Hanno avuto più tempo per prendersi cura di me e di mio fratello, e ora che stanno affrontando l'età della pensione, la loro esistenza è tuttora ricca di impegni in svariate associazioni.
Ai loro tempi era una cosa insolita. Oggi è una tendenza, almeno per chi può permetterselo. Nel giro di trent’anni l’ambiente del lavoro è cambiato in maniera considerevole. Le persone che si dedicano completamente al proprio lavoro non sono più un esempio per i giovani, o almeno non sono l’unico.
Le nuove generazioni vogliono riprendere il controllo della propria vita, e come scrive la nostra collega polacca, pensano che “il nuovo lusso non sia rappresentato dalla libertà di spendere, ma dal tempo libero”.

C'è chi potrebbe sostenere - giustamente - che le persone in lotta per ottenere un salario decente non hanno come priorità la riduzione delle ora di lavoro. Qualcun altro penserebbe che i cambiamenti in corso siano il culmine della individualizzazione della società. Una risposta a tutti questi validi argomenti potrebbe arrivare dall'Italia, e proprio in questa newsletter: l’azione collettiva richiede anche più tempo fuori dall’ufficio.
Nelly Didelot, caporedattrice di questa settimana


LAVORARE DI MENO PER AMARE DI PIÙ

Foto Unsplash

VARSAVIA - Ricordo fin troppo bene la loro stanchezza. I miei genitori – come del resto la loro generazione in generale – hanno subordinato la loro intera esistenza al lavoro. Hanno sempre riempito il proprio tempo libero con una serie di attività, in parte per necessità economica, in parte perché non concepivano come si potesse spenderlo in altro modo. Il tempo libero era visto come una cosa da perdenti ai quali non importa di nulla nella vita. È per questo che loro, che sono stati la prima generazione a godere di una ventata di capitalismo, hanno affidato la propria vita al denaro.
Lavorare sodo e fare gli straordinari era l’unico modo per tirare avanti. Di conseguenza, alcuni di noi hanno potuto conoscere poco i propri genitori e sentono ancora la mancanza del tempo che non è stato condiviso assieme a loro.
I miei coetanei – persone di età compresa tra i venticinque e i trent’anni, con diversi punti di vista ed esperienze di vita – mi riferiscono tutti la stessa cosa: che i loro genitori hanno avuto orari di lavoro troppo lunghi. E che nel crescere i figli hanno dato troppa importanza alla necessità di raggiungere una stabilità economica.
Per i nostri genitori, il lusso era rappresentato da tutte le prede del capitalismo in fase giovanile. Per goderne appieno bisognava giocare secondo le regole dettate dall’economia del libero mercato. D’altro canto, la nostra generazione sta scrivendo lentamente la propria definizione di lusso. Il suo ingrediente principale non è la libertà economica, ma il tempo libero. E quanto di quel tempo libero un datore di lavoro sia disposto a garantire può costituire il fattore che determina, o che addirittura capovolge, il mercato del lavoro.
Una settimana lavorativa di quattro giorni diventa una prospettiva inevitabile. Non si tratta di un semplice capriccio di una società pigra e neoliberista, ma di una soluzione che porta dei benefici tangibili alle imprese, ai capi, ai dipendenti, al clima che cambia inesorabilmente e all’economia stessa.
Oltre a queste categorie c’è dell’altro. Quel giorno in più nel fine settimana costituisce anche un’opportunità data alla prossima generazione. Un’occasione per non perdere più l’occasione di vedere qualcuno, per avere la forza di portare avanti delle relazioni e per costruire una società sana.
Edyta Zielinska-Dao Quy lavora per Gazeta Wyborcza e per il magazine Pismo


IL NUMERO DELLA SETTIMANA: 54 CONTRO 62

BERLINO - La Germania è ancora divisa, perlomeno per quanto riguarda l’atteggiamento del paese nei confronti del concetto di settimana lavorativa di quattro giorni.
Secondo un recente sondaggio, il 62 per cento degli abitanti dell’ex Repubblica democratica tedesca (Ddr) è contrario alla settimana lavorativa di quattro giorni, con paga completa ma con ore lavorative ridotte. Anche nel territorio dell’ex Germania occidentale la maggioranza è contraria, ma in misura minore: ad opporsi è solo il 54 per cento.
Il motivo più comune per tale scetticismo è il timore che sia troppo difficile per le aziende delegare gli stessi compiti in meno ore. A quanto pare, l’esperienza del modello economico della Ddr, o le ripercussioni del suo crollo, hanno reso le persone più sospettose nei confronti degli esperimenti sull’organizzazione del lavoro.
Teresa Roelcke è una cronista di Tagesspiegel


SE LAVORI A LIONE IL VENERDÌ È LIBERO

Zémorda Khelifi. Foto autorità metropolitana di Lione

PARIGI - La verde Zémorda Khelifi a Lione ha un ruolo amministrativo importante perché è vicepresidente del dipartimento metropolitano. Le abbiamo chiesto quindi di illustrare l’iniziativa che partirà a settembre: più della metà dei 9600 lavoratori al servizio degli enti locali potrà adottare la settimana lavorativa da quattro giorni. Sempre che lo desideri.
Perché il dipartimento metropolitano di Lione ha deciso di realizzare questo progetto pilota?
Questo test rispecchia il nostro modo ecologista di intendere la società, perché mette al centro qualità della vita, salute, ambiente. Idealmente, vorremmo ridurre l’orario di lavoro a trentadue ore settimanali invece che trentasei, ma questo è fuori dal nostro campo di azione. Visto che però in questa fase troviamo difficile fare nuovi assunzioni, speriamo con questo esperimento di rendere i nostri impieghi più attraenti.
Che benefici sperate di ottenere da una settimana lavorativa di quattro giorni?
Gli esperimenti condotti all’estero, in particolare nel Regno Unito, in Portogallo e in Islanda, hanno dimostrato un miglioramento della salute fisica e mentale dei lavoratori, con una conseguente riduzione dei congedi per malattia da parte dei dipendenti. Questo dovrebbe anche avere un impatto sulla parità di genere sul posto di lavoro. L’ottanta per cento del nostro personale part time è costituito da donne. Passando a una settimana lavorativa di quattro giorni, potranno tornare al lavoro a tempo pieno, se lo desiderano, e ricevere la paga completa mantenendo un giorno libero.
L’inevitabile allungamento della giornata lavorativa non rischia di compromettere l’effetto che si vuole ottenere?
Ovviamente c’è questo rischio. Ma ciò permetterà anche di ridurre i tempi di spostamento casa-lavoro, che sono aumentati notevolmente negli ultimi anni. Secondo un sondaggio che abbiamo condotto nel 2021, il cinquanta per cento dei nostri dipendenti deve viaggiare per più di trenta minuti per raggiungere il lavoro, e il dieci per cento deve viaggiare per oltre un’ora. Avere un giorno in più senza dover lavorare dovrebbe compensare anche questo, come minimo. È anche importante ricordare che si tratta di un esperimento volontario, e ne valuteremo gli effetti e la soddisfazione da parte del personale dopo sei mesi.
Léa Masseguin scrive di Esteri per Libération


QUI SIAMO ANCORA FERMI A PAGHE DA FAME

Il post recita: "Che ironia. Quando il governo ha lanciato il suo progetto Romania istruita è iniziato il più grande sciopero degli insegnanti di tutti i tempi”.

Il post recita: "Che ironia. Quando il governo ha lanciato il suo progetto Romania istruita è iniziato il più grande sciopero degli insegnanti di tutti i tempi”.

BUCAREST - “Piuttosto che fare questo striscione, preferirei fare lezione. Non posso permettermi di scioperare e non ricevere lo stipendio. Ma a lungo andare non posso nemmeno permettermi di non scioperare”. Questi sono gli slogan impugnati da un’insegnante in sciopero per quasi un mese, e mostrano i dilemmi affrontati dai lavoratori di prima linea nel sistema educativo rumeno.
La maggior parte degli insegnanti è così sottopagata da essere costretta a fare un secondo o un terzo lavoro. In tanti lavorano come insegnanti di matematica o biologia di mattina, e consegnano cibo in bicicletta nel pomeriggio. Ecco perché a maggio ha avuto inizio il più grande sciopero degli insegnanti degli ultimi vent’anni, che ha coinvolto 300mila persone. Lo sciopero è stato interrotto a metà giugno, quando il governo ha accolto parzialmente le richieste degli scioperanti.
Anche gli impiegati nei carceri hanno smesso di lavorare per ottenere una paga più alta e, negli ultimi giorni, i lavoratori sanitari hanno dato il via a uno sciopero alla giapponese, indossando una striscia bianca come segno di protesta.
Boróka Parászka è una giornalista di HVG


IL TEMPO LIBERO NON È UNA QUESTIONE PRIVATA

Foto Unsplash

ROMA - Attenzione alla trappola! L’idea di avere più tempo per sé è estremamente seducente, sia chiaro. Ma non bisogna fidarsi di chi traduce questo concetto in “più tempo privato”. Ci serve anche più tempo da condividere in quanto collettività. C’è estremo bisogno di più impegno politico, tanto per cominciare. Un divano è prezioso se resta un divano appunto. Quando diventa un destino, allora è una trappola.
La nostra Costituzione recita che «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». È fondata sul lavoro precario, se ci si attiene ai fatti. Per decenni, il nostro tessuto sociale è stato frammentato in una galassia di contratti a tempo, e la premier Meloni sta persino peggiorando la situazione: il suo “decreto 1 maggio” allenta ancor di più le briglie sui contratti a termine.
A questo quadro va aggiunto l’impatto della pandemia nella diffusione del lavoro da casa. Adesso anche un lavoratore dipendente e a tempo indeterminato sta rimodulando il proprio lavoro come se fosse pagato a prestazione. Per non parlare del fatto che tra colleghi ci si incontra di meno, e di conseguenza anche la capacità collettiva di opporre resistenza alle ingiustizie sul luogo di lavoro si è indebolita.
A Roma mi capita di vedere i rider riposarsi in mezzo alla strada, stesi sulle aiuole incolte delle rotatorie, nel tempo vuoto tra una consegna e l’altra. I nostri diritti ci stanno scivolando via, in una sorta di schiavitù 2.0.
Davvero sarà la settimana lavorativa da quattro giorni a riportare l’equilibrio tra il 99 per cento e l’un per cento sempre più ricco? La risposta dipende dal significato che attribuiremo alle nostre ore libere.
Rivolgendosi alla folla che protestava contro il posticipo dell’età pensionabile a 64 anni voluto da Macron, il leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon ha detto che non dovremmo mercificare la nostra esistenza; e su questo mi trova d’accordo. Ma dovremmo forse concluderne semplicemente che ci serve più «tempo privato», come lo chiama Mélenchon? Credo che dobbiamo anche opporci alla privatizzazione del tempo.
Pensateci: i cinema vengono disertati, così come le esperienze culturali collettive, perché ognuno si incolla al suo Netflix. Ai partiti non ci si iscrive, né li si frequenta, perché i politici hanno rinunciato a rappresentarci. Neppure al ristorante si va più insieme: ci sono le app per ordinare il cibo a casa. E tutto questo ci fa davvero sentire più liberi, o siamo semplicemente più soli?
Riprendiamoci il nostro tempo insieme. Rianimiamo gli incontri sindacali. Riportiamo a noi la politica. Infuriamoci per il cambiamento climatico. Il tempo in sé non vale nulla, se non ci riprendiamo anche la speranza.
Francesca De Benedetti scrive di Europa ed Esteri a Domani


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it

Alla prossima edizione!


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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