Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla trentottesima edizione dello European Focus!
Sono Siniša-Jakov Marusic, il caporedattore di questa settimana, e scrivo da Skopje.
Quando ero giovane, nella mia mente era impressa l’immagine dell’amichevole poliziotto di quartiere. Uno di noi. Il “bravo ragazzo” che è qui per aiutarmi quando mi perdo e per difendermi dai bulli.
Mi chiedo se il diciassettenne Nahel, ucciso dalla polizia a Parigi il mese scorso, abbia mai avuto la possibilità di essere altrettanto ingenuo da bambino. O i poliziotti del suo quartiere hanno sempre portato solo guai?

Mentre scrivo queste righe, la Francia è scossa dalle sommosse scatenate dall’omicidio di Nahel, e una frase su un graffito in Ucraina pone una semplice domanda che mi tormenta: “Chi chiamate quando è la polizia a uccidere?”.
Non sono sicuro della risposta. Ma so che la questione non riguarda solo la Francia né solo la brutalità della polizia; spesso si tratta di un sintomo di malattie profondamente radicate quali odio, xenofobia e discriminazione.
Siniša-Jakov Marusic, caporedattore di questa settimana


L’UCCISIONE DI NAHEL E LA ANOMALIA FRANCESE

Foto AP

PARIGI - Per quanto riguarda la sicurezza pubblica, la Francia è una “anomalia”. È l’osservazione fatta da diversi specialisti, preoccupati per l’aumento di uccisioni a colpi di pistola da parte della polizia francese negli ultimi anni.
La questione è tornata al centro del dibattito pubblico dopo la morte di Nahel, un adolescente di 17 anni ucciso dalla polizia il 27 giugno nei sobborghi di Parigi dopo che aveva disobbedito alla richiesta di arrestare il proprio veicolo.
Non si tratta di un caso isolato. Dall’inizio del 2022 la polizia francese ha ucciso almeno quindici persone dopo che le vittime non avevano obbedito all’ordine di fermarsi; un numero molto maggiore rispetto a quello dei loro colleghi europei.
Secondo il ricercatore della polizia francese Sébastian Roché, la Germania ha registrato solo una sparatoria con esito letale contro un veicolo in movimento in dieci anni.
I suoi calcoli dimostrano che tra il 2011 e il 2020 la polizia e la gendarmeria francese hanno ucciso quasi il 50 per cento di persone in più rispetto alla polizia tedesca, e oltre tre volte e mezza in più di quella britannica.
La vittima è in genere un uomo di meno di 27 anni, dal nome che suona africano o nordafricano, e che vive in un quartiere della classe operaia vicino alle grandi città. Le possibili ragioni di questa “anomalia francese” sono diverse. Ricercatori e parlamentari hanno puntato il dito sulla riforma di una legge nel 2017 che ha allentato le norme sull’uso di armi da fuoco da parte degli agenti di polizia e che, secondo uno studio recente, ha fatto aumentare di cinque volte il numero degli omicidi nei veicoli in movimento rispetto al 2012-2016.
La relazione denuncia, inoltre, le carenze qualitative dei candidati che prendono parte all’addestramento per ufficiali in uniforme: quasi uno su cinque viene ora ammesso nei ranghi della polizia, mentre dieci anni fa si trattava di uno su cinquanta. L’aumento delle uccisioni a colpi di pistola da parte dalla polizia ha gravi conseguenze sociali. Il fenomeno rischia di rendere più profonda la spaccatura che divide la società francese in due fazioni rivali: quelli che mettono l’ordine al di sopra di ogni altra cosa, e quelli che denunciano il razzismo e la discriminazione dietro alle morti causate dalla polizia.
Léa Masseguin fa parte della redazione Esteri di Libération


LA POLIZIA TRA SPIRITO DI CORPO E BRANCO

MADRID / WASHINGTON - Gli Stati Uniti hanno più esperienza delle proprie controparti europee nel comprendere la violenza della polizia e la psicologia del fenomeno. Paul Hirschfield è professore di sociologia presso la Rutgers University e ha studiato la questione della responsabilità che ricade sulla polizia.
Ci sono fattori psicologici che spiegano almeno in parte il fenomeno della violenza da parte dei corpi di polizia?
La violenza della polizia può spesso essere spiegata dalla psicologia di gruppo. La violenza è anche una reazione procedurale: viene imposta, incoraggiata o consentita in diverse situazioni. Molti aspetti dell’attività della polizia fanno emergere una mentalità del tipo “noi e loro”. Innanzitutto, la polizia è un’organizzazione paramilitare isolata. Le sue prestazioni sono spesso valutate in base al rispetto di procedure e incentivi di cui il pubblico ha una scarsa conoscenza. Gli agenti di polizia hanno spesso l’impressione che il pubblico, soprattutto quello che li critica, non capisca il loro lavoro.
La realtà quotidiana di politiche irrealistiche o ambigue che portano inevitabilmente alla cattiva condotta della polizia, unita al controllo esterno, promuove una cultura del lavoro di squadra e della solidarietà, ma rende anche gli agenti più inclini a coprire reciprocamente i propri errori.
Come disinnescare questo tipo di mentalità?
Quando si tratta di sorvegliare comunità svantaggiate o oppresse, può essere d’aiuto allentare i confini tra il pubblico e la polizia. La struttura paramilitare isolata può essere utile per alcuni scopi (come ridurre la corruzione e aumentare la responsabilità interna), ma serve a ben poco quando bisogna incoraggiare l’empatia attraverso le barriere culturali e incentivare la fiducia del pubblico.
Quale approccio suggerisce?
Un intervento richiede tempo e cambiamenti significativi nelle forze di polizia centralizzate. L’approccio da preferire è quello scandinavo. L’addestramento lungo (tre anni in Finlandia, ad esempio, rispetto all’addestramento breve negli Usa) presso accademie nazionali di polizia altamente selettive fornisce l’opportunità di infondere appieno negli agenti di polizia uno spirito di servizio nazionale ed eguaglianza (per non parlare di un’ampia formazione in alternative tattiche alla violenza).
Non credo sia una coincidenza che in Francia, dove i problemi dell’ostilità della polizia e tra le comunità sono così accentuati, gli agenti di polizia ricevano un addestramento relativamente breve, in media di nove mesi.
Alicia Alamillos scrive per El Confidencial


COSÌ IL PREMIER POLACCO APPROFITTA DEI MOTI FRANCESI

BUDAPEST - Nanterre e Marsiglia, Francia, 28 giugno: automobili in fiamme e negozi saccheggiati. Cracovia, Polonia, 28 giugno: donne che passeggiano tranquillamente sotto il sole. Sono le scene di un video condiviso su Twitter dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki durante i disordini francesi.
Non è stato l’unico leader populista ad approfittare della situazione. In un post su Facebook il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, che predilige la linea dura contro l’immigrazione come il suo omologo polacco, ha scritto: “Le rivolte francesi dimostrano che l’integrazione di masse violente di immigrati clandestini provenienti da altre culture è impossibile”.
Oltre a segnare punti in casa, le dichiarazioni polacche e ungheresi portano con sé un messaggio speciale all’Unione europea. Mentre l’Ue continua a discutere sul proprio nuovo patto sui migranti, che include la ricollocazione volontaria e la solidarietà, entrambi i paesi dell’Europa centrale hanno chiarito di essere pronti a combattere contro questa proposta, che considerano “un’imposizione dall’alto”.
Entrambi i paesi hanno già usato il proprio potere di veto a mo’ di ricatto, quindi le loro potrebbero essere molto più che parole vuote.
Viktória Serdült è una giornalista di HVG


IL NUMERO DELLA SETTIMANA / 8

KIEV - Questo è il numero di volte in cui gli impiegati pubblici di Kiev hanno coperto una frase specifica di un graffito, lasciando intatte le parole e le immagini vicine.
Il graffito, in ucraino, chiedeva: “Chi chiamate quando è la polizia a uccidere?”. La scritta è apparsa per la prima volta il 16 settembre 2019 nel contesto di numerose segnalazioni di violenza non autorizzata da parte della polizia. Il graffito è stato costantemente ridipinto dagli attivisti e si è diffuso in altre grandi città ucraine.
Con l’inizio dell’invasione russa su vasta scala, la reputazione della polizia è migliorata drasticamente: molti ufficiali si trovano in prima linea a difendere il proprio paese sacrificando le proprie vite. Ma il problema dell’impunità della polizia deve essere ancora affrontato.
Anton Semyzhenko si occupa della sezione in lingua inglese di Babel.ua


MARTIN, UCCISO DALLA POLIZIA, HA CAMBIATO IL PAESE

Persone radunate nel centro di Skopje nel 2016 per celebrare il quinto anniversario del brutale omicidio di Martin Neshkovski per mano di un agente di polizia. Foto Birn.

SKOPJE - Mentre leggo cosa accade in Francia, rivedo le immagini del mio stesso paese.
Nel giugno del 2011 il primo ministro macedone, Nikola Gruevski, si stava godendo l’ennesima vittoria elettorale quando ha avuto inizio la sua fine politica, smascherando così il suo regime autoritario. Durante i festeggiamenti del suo partito a Skopje, un poliziotto ha ucciso brutalmente Martin Neskovski, di 22 anni, che per ironia della sorte si trovava lì per onorare la vittoria di Gruevski.
Inizialmente, la polizia ha tenuto segreti i dettagli, ma la notizia si è diffusa sui social network. Centinaia di giovani hanno iniziato a protestare contro il tentato insabbiamento, chiedendo “Giustizia per Martin”. Entro la fine dell’estate migliaia di persone hanno protestato in piazza ogni giorno.
Le autorità hanno dovuto riconoscere l’omicidio e hanno arrestato l’agente di polizia sospettato del crimine. Ma quest’ultimo ha insistito sul fatto di essere stato fuori servizio quel giorno. Nessun altro è stato ritenuto responsabile.
Eppure, ricordo che poi nulla è più stato lo stesso. Prima, solo la debole opposizione aveva gridato allo scandalo. Dopo, lo stretto controllo del potere da parte di Gruevski ha iniziato a cedere.
Al potere dal 2006, Gruevski è stato finalmente deposto nel 2017. Ma è stata una goccia a far traboccare il vaso. Nel 2014, per via di una proposta di modifica della legge sull’istruzione, decine di migliaia di persone avevano protestato a Skopje, chiedendo a Gruevski di porre fine alle ingerenze nella scuola elementare e nell’università.
Nel 2015 era iniziata un’altra ondata di proteste, dopo che l’opposizione aveva pubblicato una serie di intercettazioni trapelate dalla polizia segreta che mostravano il volto corrotto del regime di Gruevski. Una di esse suggeriva che le autorità avessero complottato per insabbiare la responsabilità dell’omicidio di Neskovski.
La “Rivoluzione colorata” è durata fino al momento in cui una nuova maggioranza ha rovesciato il regime nel 2017.
Io ero lì. Ho seguito quelle proteste. Ho sentito l’energia e ho visto di persona quanto la richiesta di giustizia per Martin ne facesse parte.Poi la politica ha preso il sopravvento, e ora veniamo ancora avvertiti del fatto che la brutalità della polizia costituisce un problema. Mi chiedo se la storia si ripeterà.
Emilija Petreska scrive per Balkan Insight


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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