Eccoci di nuovo insieme, Europa!


Con settembre ricomincia European Focus - questa è la quarantaduesima edizione - e c'è di più. Intanto lascia che mi presenti: io sono Viktória Serdült, la caporedattrice di questa settimana, e vivo a Budapest.


Come ti dicevo, c'è di più: proprio in queste ore il team di colleghi europei è riunito a Varsavia per lavorare a questo progetto. Per Domani c'è la mia collega Francesca De Benedetti, e ci si riunisce stavolta nella redazione di Gazeta Wyborcza, a Varsavia. Questo è il terzo "summit" dello European Focus, dopo gli incontri di Berlino e di Budapest.

Diciamolo: gli incontri virtuali non bastano, ogni tanto è il momento di ritrovarsi. E di sentirci un po' come quando si rientra a scuola, dopo l'estate. A proposito...
 

«Ma non sarebbe troppo scontato?», questa è stata la prima reazione dei miei colleghi quando ho suggerito che il nostro nuovo numero dopo le vacanze estive dovesse riguardare il nuovo anno scolastico.

Ma man mano che la riunione andava avanti, ci siamo resi conto che, indipendentemente dal nostro luogo di origine, non parlavamo di altro che della scuola.

Il nostro collega di Kiev, Anton, ci ha raccontato come i bambini ucraini stiano cercando di ritrovare la normalità nel bel mezzo della guerra. Dall’altro lato del continente, Alicia ci ha stupito con la mancanza di fiducia della Spagna nel proprio sistema educativo.

Proprio in quel momento, il mio caporedattore mi aveva mandato un messaggio, ricordandomi che era ora di finire il mio pezzo sulla crescente carenza di insegnanti nelle scuole ungheresi, cosa che sta accadendo anche in Polonia.

A quel punto ho iniziato a chiedermi quanto sia cambiata la vita dei bambini negli ultimi anni. Dal Covid a una brutale guerra in Europa, l’esperienza scolastica di un’intera generazione è così diversa da quella a cui erano abituati i loro predecessori.

Quindi sì, a volte è il caso di parlare anche di temi che paiono scontati. Dall’Ucraina alla Spagna, tutti dobbiamo chiederci: abbiamo imparato qualcosa dalle sfide che abbiamo affrontato, e siamo finalmente pronti a cambiare in meglio l’istruzione?

Speriamo che questa newsletter sia... di insegnamento, e che porti novità.


Viktória Serdült, caporedattrice di questa settimana


CON ORBÁN LA CLASSE È ALLO STREMO PRIMA DI INIZIARE

Vestiti per protestare: gli studenti ungheresi durante una manifestazione davanti al parlamento. Foto di Domokos Schveger

BUDAPEST - «L’ultima settimana del mese la mia famiglia prepara un piano di sopravvivenza. Se riesco a vendere qualche disegno sono fuori dai guai. Ma altrimenti, posso andare a raccogliere l’uva», dice László, insegnante e vignettista part time della città ungherese di Dabas.

A soli tre anni e mezzo dal pensionamento, questo insegnante ungherese si aspetta una pensione di 160 mila fiorini al mese, cioè di 416 euro; e il suo caso non è certo isolato, anzi. «Io e i miei colleghi valiamo più di quello che offre questo governo», aggiunge.

Éva, insegnante di sostegno di Budapest, racconta una storia simile. «Ho esaurito le energie», dice. «A un certo punto non sono più riuscita a mantenere la calma e ho iniziato a piangere davanti a tutto il personale».

László ed Éva ora non insegnano più. Sono due tra le centinaia di persone che hanno lasciato il lavoro negli ultimi mesi per via degli stipendi costantemente bassi e dell’introduzione della cosiddetta “legge sullo status” che limita i diritti degli insegnanti.

Senza ombra di dubbio, l’inizio dell’anno è stato molto cupo per gli insegnanti ungheresi. Nonostante quasi un anno di proteste e scioperi, nonché innumerevoli promesse da parte del governo, la loro situazione non è cambiata. Alcuni sono stati licenziati per via delle proprie azioni di protesta, mentre gli stipendi rimangono tra i più bassi dell’Unione europea. Nel frattempo, il colmo è che il governo ungherese accusa proprio l’Ue di aver bloccato i fondi necessari per l’aumento degli stipendi.

Inoltre, questa nuova legge sullo status sta avendo un impatto disastroso, anzitutto perché limita il diritto degli insegnanti di protestare, ma pure perché aumenta il numero massimo delle loro ore lavorative da otto a ben dodici al giorno. E come se non bastasse, li costringe a trasferirsi nelle scuole in cui gli insegnanti scarseggiano.

Questo potrebbe accadere molto presto, dato che le scuole stanno annunciando la presenza di posti vacanti per gli insegnanti specializzati in “matematica e tutto il resto”.

Secondo il ministero dell’Interno – che in Ungheria ha in carico il settore dell’istruzione – il paese al momento ha una carenza di soli 460 insegnanti. Ma la cifra è destinata ad aumentare a breve, dato che molti hanno promesso di dimettersi presto.

Emese Csendes-Erdei scrive di politica interna ungherese per HVG


IL NUMERO DELLA SETTIMANA - 876

SKOPJE - Questo è il numero di volte che le scuole macedoni sono state evacuate durante l’ultimo anno. Perché? La polizia ha dovuto intervenire per via di quasi mille falsi allarmi bomba.

Questo fenomeno preoccupante è iniziato lo scorso autunno, quando il paese, come molti altri nei Balcani, ha iniziato a ricevere dozzine di allarmi bomba ogni giorno.

A essere colpiti sono stati soprattutto i paesi che stanno aiutando l’Ucraina a difendersi dalla Russia. Gli esperti hanno puntato il dito contro un possibile attacco ibrido russo progettato per limitare le risorse per la sicurezza e causare disordini in un paese di appena due milioni di abitanti.

Mentre i bambini tornano a scuola, ritorna anche la paura che gli allarmi possano avere di nuovo inizio.

Siniša-Jakov Marusic è un giornalista di Balkan Insight


"ABBIAMO IMPARATO COME SI INSEGNA SOTTO LE BOMBE"

Anna Novosad nel rifugio antiaereo di un liceo. L'ex ministra è attiva per garantire l'istruzione nell'Ucraina in guerra

KIEV - Anna Novosad è stata ministra dell’istruzione ucraina. Ora dirige l’ong savED, che riporta l’istruzione nelle comunità devastate dalla guerra.

Lo scorso settembre gli ucraini non sapevano come far studiare i bambini durante la guerra. Ora abbiamo imparato. Quali sono le sfide che insegnanti e studenti ucraini devono affrontare?

Prima di tutto l’accesso all’istruzione. In molte regioni vicine al fronte i bambini inizieranno a studiare online, perché riunirsi è ancora troppo pericoloso. In secondo luogo, gli occupanti russi spesso colpiscono le scuole. Circa 1.500 edifici scolastici sono già stati distrutti, e il numero è in aumento. Ad esempio, lavoriamo in diversi insediamenti della regione di Mykolaiv, dove l’80 per cento delle scuole è stato distrutto.

Ma la gente sta tornando, e ci sono di nuovo i bambini; però senza posti dove possano studiare. Così, abbiamo allestito delle scuole temporanee nei centri culturali, nelle unità mediche, negli scantinati o nei rifugi.

Molta speranza era stata riposta negli strumenti di apprendimento online. Sono inefficaci?

L’istruzione non riguarda solo la conoscenza, ma anche la socializzazione. Non si può insegnare l’interazione, il lavoro di squadra e l’empatia su Zoom. Soprattutto ai bambini piccoli. E, spesso, quello che desiderano di più è proprio rimanere offline, non ricevere un nuovo portatile o un nuovo tablet.

Ora è anche chiaro che l’apprendimento online non fornisce la stessa qualità di conoscenza. I risultati dell’indagine Pisa non sono ancora arrivati ma, da quel che so finora, sono disastrosi.

Probabilmente ha una sorta di piano d’azione a medio termine. Come vede la situazione tra un anno o due?

Dipende molto dalla regione, ma le scuole temporanee sembrano essere una soluzione diffusa. Ci vorranno molti anni per ricostruire gli edifici scolastici distrutti. Di recente, vicino a Kiev, abbiamo trasformato il centro culturale di un villaggio in una scuola. Sembra che quella sarà l’unica struttura educativa adeguata del luogo per almeno cinque anni.

L’edificio scolastico sarà ricostruito con l’aiuto della Banca europea per gli investimenti e, come mi è stato detto, in questo caso il processo burocratico è di una lentezza disarmante.

Anton Semyzhenko si occupa della sezione in inglese di babel.ua


COSÌ IL GOVERNO POLACCO "ISTIGA" ALLA SCUOLA PRIVATA

Il ministro dell’Istruzione polacco Przemysław Czarnek. Foto Bartosz Banka / Agencja Wyborcza.pl

VARSAVIA - «Dite che le cose vanno così male nelle scuole. Ma non è collassato nulla!», ha detto il ministro dell’Istruzione polacco Przemysław Czarnek durante una conferenza stampa in vista del nuovo anno scolastico.

Se lo chiedete al ministro, in Polonia non c’è nessuna carenza di insegnanti. I presidi delle scuole raccontano una storia diversa: non riescono a trovare insegnanti di matematica, fisica, chimica, inglese, polacco, o maestri per la scuola materna. Per poter dare inizio alle lezioni, hanno chiesto agli insegnanti in pensione di rimanere per almeno un altro semestre, mentre ad altri hanno offerto ore di straordinari.

Ma gli insegnanti polacchi sono già sovraccarichi di lavoro. Devono gestire troppe classi, spesso composte da 30 alunni, per cui per loro è difficile persino ricordarsi i nomi degli allievi.

I genitori e gli alunni reagiscono allontanandosi. Da un recente sondaggio, denominato “barometro dell’istruzione non pubblica”, emerge che le liste d’attesa per le scuole private sono sempre più lunghe.

Quest’anno nelle più grandi città polacche, in media, a fare domanda nelle scuole private ci sono stati più di quattro candidati per ogni singolo posto disponibile.

Di conseguenza, in Polonia sta prendendo piede la privatizzazione della scuola. Ciò costituirebbe una crescente disuguaglianza nell’accesso all’istruzione: coloro che possono permetterselo avranno un vantaggio fin dall’inizio.

Karolina Słowik è una cronista di Gazeta Wyborcza e segue i temi legati alla scuola


LIBRI LETTI E VOGLIA DI STUDIARE. MA PURE DI FUGGIRE

Una scuola in un'area marginalizzata della Spagna. Foto Alejandro Martinez

MADRID - Quando ero bambina, ricordo che mio padre mi chiedeva scherzando: «Sai elencare i dodici re visigoti di Spagna?». Ovviamente non ne ero capace, perché io – diversamente dal mio papà – non l’ho mai dovuto imparare a scuola. Lui, tuttavia, a distanza di tanti anni riusciva ancora a ricordarsi i loro nomi.

Questo elenco dei re Visigoti finisce per riassumere il diverso modo in cui gli spagnoli vedono il proprio sistema educativo. Molti credono che i metodi di istruzione tradizionali, incentrati sul ruolo dell’insegnante e basati sulla memorizzazione e sui contenuti, siano migliori del sistema moderno, che è invece incentrato sugli studenti e sulla creatività, e che pone un’enfasi sui processi piuttosto che sui risultati.

Ovviamente, le nostre idiosincrasie e la nostra storia non aiutano. Osserviamo i risultati spagnoli dell’indagine Pisa e quelli dei paesi nordici e ci chiediamo: «Perché non possiamo essere come loro?». Ma noi abbiamo un sistema educativo diverso in ogni regione, come anche diverse lingue regionali, e i cambiamenti normativi avvengono quasi con la stessa frequenza dei cambi di governo.

Anche se, a differenza di mio padre, io sono stata istruita in un sistema che non dà più così tanta importanza alla memorizzazione, io e i miei coetanei tendiamo comunque a trascurare il quadro complessivo.

Il passato non è migliore e abbiamo fatto un grande salto in avanti: prima l’istruzione era obbligatoria solo fino all’età di 14 anni, e appena il 6 per cento aveva raggiunto il livello universitario.

Ora, è obbligatorio frequentare la scuola fino a 16 anni, e il numero degli studenti universitari continua a salire.

In effetti, i due modelli non dovrebbero escludersi a vicenda, poiché ognuno di essi ha i propri vantaggi. Diversamente da certe narrazioni, secondo cui le generazioni più giovani leggerebbero meno, i dati mostrano che il numero di lettori tra gli spagnoli è aumentato di 5,7 punti negli ultimi dieci anni, con un aumento in particolare tra gli adolescenti.

Nonostante le narrazioni secondo cui gli insegnanti sarebbero ormai troppo indulgenti con gli studenti, permettendo loro di superare i corsi con facilità, in Spagna i numeri dei ripetenti e di coloro che abbandonano lo studio sono ancora tra i più alti d’Europa. È questo il problema più grave che il paese deve risolvere nell’ambito dell’istruzione.

Un altro problema è che sempre più adolescenti vogliono andare all’università e studiare nel proprio paese d’origine, ma poi partono per andare a lavorare all’estero.

Il sistema educativo, forse, funziona bene. Ma è dopo che ci sono poche opportunità.

Alicia Alamillos scrive di politica internazionale per El Confidencial


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
Un saluto da Varsavia e alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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