Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Se Caponnetto era la nostra guida, Giovanni Falcone, accanto a lui, era il nostro leader. La sua autorità se l’era guadagnata sul campo.

D’altronde, se un magistrato come Rocco Chinnici aveva deciso di affidargli il processo Spatola qualche buon motivo doveva esserci. Era capace di iniziare la giornata alle cinque del mattino, andare in piscina (non sempre) e poi lavorare tutto il giorno fino a tardi.

Era dotato di carisma, di un intuito formidabile e di una memoria straordinaria.

La sua vita era dedicata al lavoro. Le sue giornate non avevano pause. Nonostante la sua autorevolezza, conservava un atteggiamento rispettoso e colloquiale nei confronti dei colleghi più giovani, mentre nei nostri confronti manteneva sempre un comportamento franco, leale, aperto, amichevole e anche protettivo.

Se avevi un dubbio su un mafioso, non ricordavi a quale “famiglia” appartenesse, lui era in grado di ricordare non solo la “famiglia”, cioè il manipolo di “uomini d’onore” di cui faceva parte, ma anche tutta la sua parentela di sangue. L’unico che poteva stargli dietro era Paolo. Per questo fra i due si scatenavano ogni tanto accese discussioni su quello o quell’altro mafioso, sul curriculum, l’appartenenza, la parentela. Nessuno dei due cedeva. Una “camurria”, avrebbe detto Andrea Camilleri, anche molto divertente.

Giovanni sapeva ridere e scherzare, ma non aveva un carattere facile. Come se interponesse sempre una barriera fra sé e gli altri. Non era ottimista né pessimista, era realista. Era una persona riservata, ma quando oltrepassavi quella barriera scoprivi un uomo dalla grande bontà d’animo. Rammento che spesso chiedeva notizie dei nostri genitori e dei nostri figli, ed era sempre pronto a sostenerci nei momenti difficili o dolorosi, come è avvenuto in occasione del decesso di mio padre.

Quando Caponnetto salutò tutti per fare ritorno a Firenze, Giovanni pianse.

Falcone era pienamente convinto delle proprie capacità e di ciò che stava facendo. Lavorare con lui era impegnativo perché ogni giorno dovevi essere all’altezza del compito, perché lui non si concedeva tregua. Era schietto, non sapeva nascondere il giudizio su persone che riteneva non

capaci, per questo si attirò molte critiche. Persino Chinnici, che pure lo stimava, nei suoi diari avanzò qualche dubbio sui suoi atteggiamenti. Ma possiamo solo immaginare il clima di paranoia del consigliere istruttore in quei giorni.

Il sense of humor di Giovanni era intonato al suo carattere. Gli piacevano le freddure, quelle battute che ci metti un po’ a capire e ti lasciano perplesso. Ai giornalisti che chiedevano come stesse, lui rispondeva “in piedi”, se era alzato, oppure “seduto” se non lo era, e se citofonavi e dicevi: «Sono Leonardo», lui rispondeva: «Io no».

Possedeva un altissimo senso delle istituzioni, che lo portò a collaborare con il consigliere istruttore Antonino Meli anche quando comprese che questi aveva deciso, con provvedimenti che non condivideva, di mettere fine all’esperienza del pool.

Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte invece preferirono rinunciare alle loro deleghe.

Sempre per lealtà istituzionale, e anche per non essere coinvolto in un altro scontro come quello con Antonino Meli, Giovanni firmò la requisitoria del procedimento relativo ai delitti politici Reina, Mattarella e La Torre, le cui conclusioni non lo convincevano. Allora Falcone era Procuratore aggiunto mentre il capo dell’ufficio era il dottor Pietro Giammanco.

Vicende su cui tornerò ancora più avanti.

Altro che forcaiolo e altro che sceriffo, Giovanni era un cultore delle regole, dei codici, della legge. Nessuno di noi era un giudice “oltre le righe”. Eravamo garantisti, garantisti fino al midollo. Una volta, eravamo nel 1988, valutammo la possibilità di emettere un mandato di cattura nei confronti di uno dei fratelli Costanzo, a nome Carmelo, i potenti costruttori catanesi, i famosi “cavalieri”, sul cui conto aveva reso dichiarazioni il collaboratore

Antonio Calderone indicandoli come “vicini”, se non “interni”, al clan mafioso di Nitto Santapaola. Ricordo che discutemmo sino a tarda sera ma alla fine, poiché non ne eravamo sicuri al 101 per cento, quel mandato di cattura non lo emettemmo.

© Riproduzione riservata