Dal 19 al 21 luglio 2001 una Genova fortemente militarizzata ospitò il Vertice del G8, un incontro tra i governi delle otto nazioni più industrializzate.

In quelle stesse giornate, nel capoluogo ligure, decine di migliaia di persone presero parte a iniziative che esprimevano ideali, proposte, strategie, visioni di politiche economiche e sociali opposte a quelle che, 20 anni dopo, avrebbero contribuito alla diffusione della pandemia da Covid-19. Iniziative in larga parte pacifiche, sebbene alcune proteste degenerarono in atti di violenza, che procurarono danni alle persone e alle cose e determinarono condanne pesantissime in sede giudiziaria.

Richieste vane

Più volte e per mesi, e anche alla vigilia del Vertice, Amnesty International aveva chiesto alle autorità italiane garanzie sulla protezione del diritto di manifestazione pacifica e sul ricorso all’uso della forza solo nelle circostanze, previste dalle norme internazionali, nelle quali questa sarebbe stata realmente necessaria. C’era molta preoccupazione, anche per gli esiti di quella che era sembrata la “prova generale”: a Napoli, neanche quattro mesi prima.

Ricordiamo come andò a Genova: aggressioni indiscriminate da parte di agenti di polizia verso manifestanti pacifici durante i cortei e le conferenze tematiche, gravi violenze nel corso di un raid notturno alla scuola Diaz, detenzione arbitraria di centinaia di persone e inflizione di torture nella caserma militare di Bolzaneto.

Alla fine del Vertice, si contarono un manifestante morto, Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere, diverse centinaia di persone ferite e altrettante trattenute a lungo a Bolzaneto senza contatti col mondo esterno: secondo un termine tristemente noto nel mondo, desaparecide.

Oltre a un’enorme mole di filmati, ben presto emersero le testimonianze dirette di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia nei confronti di cittadini italiani e stranieri: in strada, nell’assalto alla Diaz e a Bolzaneto.

Torture rimaste impunite

Sappiamo che le denunce relative all’uso eccessivo e arbitrario della forza e ai maltrattamenti e alle torture non hanno portato all’accertamento completo delle responsabilità e a sanzioni adeguate nei confronti dei responsabili. Nella maggior parte dei casi, non è stato possibile identificare gli autori materiali dei reati e solo poche vittime hanno ottenuto un risarcimento in sede civile. L’assenza del reato di tortura nel codice penale e la conseguente prescrizione per i reati a cui dovettero fare ricorso i giudici per definire la tortura hanno fatto il resto.

Che nel codice penale italiano mancasse quella parola, così tante volte pronunciata durante i dibattimenti, ne diede conto la Corte di cassazione, nel 2013, nella sentenza finale su Bolzaneto. Lo rilevò anche, quattro anni dopo, la Corte europea dei diritti umani, la cui pronuncia diede ulteriore impulso alla campagna per l’introduzione del reato di tortura, iniziata nel 1989 e terminata 28 anni dopo con un testo imperfetto e lacunoso, che ha tuttavia dato luogo ad alcune sentenze e ha consentito l’avvio di indagini, ancora in corso, per gravi violazioni dei diritti umani all’interno delle carceri italiane.

I codici identificativi

Oltre ai temi delle mancate o tardive scuse, delle promozioni degli impuniti e persino dei condannati e della messa ai margini, negli anni successivi, delle voci dei sopravvissuti e dei testimoni – un aspetto, questo, che va comunque rimarcato in occasione dell’odierna Giornata internazionale per le vittime della tortura – va infine sottolineato che l’assenza del reato di tortura non è stata l’unica grave lacuna emersa durante i processi.

Decine e decine di pubblici ufficiali che avevano preso parte all’irruzione e alle violenze della scuola Diaz non hanno mai potuto essere individuati poiché il loro volto era coperto da caschi, fazzoletti o elmetti e sulle loro divise non erano presenti elementi, quali codici alfanumerici, attraverso i quali riconoscerli.

L’Italia è tra gli ultimi cinque stati dell’Unione europea a non aver legiferato sui codici identificativi per le forze di polizia. A opporsi sono gli stessi schieramenti politici, gli stessi sindacati di polizia e gli stessi commentatori che per quasi 30 anni si sono opposti al reato di tortura: si tratterebbe di provvedimenti criminalizzanti o comunque pericolosi per gli operatori delle forze di polizia, quando in realtà non farebbero altro che tutelare l’istituzione facilitando l’accertamento delle singole responsabilità.

Ce n’è, dunque, per considerare quella inferta a Genova una ferita ancora aperta.

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