Per fortuna nella scuola italiana si comincia a parlare di valutazione. Le notizie e riflessioni sempre più frequenti sulle sperimentazioni di scuole senza voto hanno avuto il pregio di immettere nelle discussioni sulle politiche scolastiche, spesso ridotte a un gioco a somma zero tra indignati e confusi, passatisti e tecnoentusiasti, un confronto finalmente qualificato.

Sta uscendo in questi giorni per FrancoAngeli La valutazione che educa, un libro importante che fa il punto sul dibattito docimologico, come si dice in gergo pedagogico, ossia sulle teorie e le pratiche della valutazione. L’ha scritto Cristiano Corsini, professore all’università Roma tre e soprattutto costante animatore di questo dibattito che è sempre stato marginale quando si parla di scuola.

Un sistema di potere

Tra le moltissime qualità del saggio di Corsini, ce n’è una eminente: l’inquadramento di ogni discorso sulla valutazione nella dimensione politica. «L’educazione in generale», scrive proprio all’inizio, «e la valutazione in particolare sono anche questioni inevitabilmente politiche. Come e più di ogni altra faccenda educativa, la valutazione è una forma di gestione del potere».

Quello che emerge raramente, nel parlare di scuola, è come al di là delle conoscenze e delle competenze, in classe si impari spesso la replicazione di un sistema di potere e di asservimento, e che il voto sia, in questo contesto, lo strumento più grezzo ma più diffuso per un’educazione antidemocratica di massa.

Se vogliamo cogliere gli aspetti più problematici e deleteri di questa cultura che è uno dei problemi principali e annosi della scuola italiana, possiamo partire da una questione paradigmatica: quella del voto in condotta.

Nel decreto regio passato alla storia come riforma Gentile (1923, quest’anno è il centenario) viene scritta quella che sarà una regola basilare dell’istruzione italiana del novecento: «La promozione è conferita agli alunni che nello scrutinio finale abbiano ottenuto voti non inferiore a 6 decimi in ciascuna materia o complessivamente in ciascun gruppo di materie affini e otto decimi in condotta».

Gli otto anni senza condotta

Questo è valso per tutti gli ordini scuola fino al 1977, quando finalmente almeno per elementari e medie il voto in condotta e il suo uso strumentale per la bocciatura viene eliminato. La legge che prevede questa trasformazione è una delle più importanti della Repubblica italiana, la 517 del 4 agosto 1977, in cui tra le molte altre ottime novità si cancellano le classi differenziali e si introduce l’insegnante di sostegno. Il voto in condotta però resta alle superiori, continua a fare media, e se inferiore all’otto determina la bocciatura.

È soltanto nel 2000 che il valore del voto in condotta viene tolto; due anni prima viene pubblicato un altro documento importante, oggi misconosciuto, ossia lo Statuto delle studentesse e degli studenti, in cui si dice che “la valutazione dev’essere tempestiva e trasparente” e che occorre escludere che le sanzioni disciplinari connesse al comportamento possano influire sulla valutazione del profitto.

Ma è una parentesi di soli otto anni. Tra le tante misure disastrose del ministero Gelmini c’è anche la reintroduzione del voto in condotta. Un vento simile a quello che soffia oggi spinge il dibattito sulla scuola al ritorno al passato: nel decreto legge del settembre 2008 si dice che «la valutazione del comportamento inferiore alla sufficienza, ovvero a 6/10, riportata dallo studente in sede di scrutinio finale, comporta la non ammissione automatica dello stesso al successivo anno di corso o all’esame conclusivo del ciclo di studi».

Su quali criteri

Le cose sono rimaste così. Da 15 anni di fatto la formazione dei docenti viene orientata da questo obbrobrio pedagogico. La pressoché totale assenza di riflessione sul tema fa sì che oltre ai due danni educativi – poter premiare e punire i comportamenti tramite un voto e legare questa valutazione all’ammissione/bocciatura – se ne siano riprodotti un altro paio meno evidenti.

Il primo è quello per cui la stragrande maggioranza dei docenti non ha idea di cosa definire condotta: si possono specificare dettagliatamente quali sono i comportamenti che prevederebbero una certa valutazione, ma l’arbitrio nel giudizio di una dimensione così complessa e astratta della vita a scuola di uno studente finisce nella maggior parte dei casi per risolvere la discussione sulla condotta nei consigli di classe in un’astratta – e spesso discriminante, spesso minacciosa – controversia sui valori morali o le pratiche educative («Non si merita 8, con me è indisponente», «Con tutte queste assenze, si prende un 7 in condotta», «Non mi sembra partecipi molto, gli abbasserei la condotta»…) o su una valutazione che semplicemente echeggia la media del resto dei voti.

Un voto da eliminare

La seconda nefasta abitudine è quella di utilizzare il voto in condotta come un significante vuoto, riempendo la casella senza alcun’altra funzione se non quella di aggiustare quella media che poi servirà a calcolare i crediti. Quest’uso informale, spesso paternalistico, non è meno spregevole di quello autoritario, perché delegittima il senso della valutazione e quindi anche la relazione educativa stessa.

C’è un ulteriore elemento trascurato: questo guasto inflitto all’intera pratica educativa dall’uso e l’abuso del voto in condotta non riguarda soltanto il rapporto tra studenti e professori (e anche l’intera istituzione scolastica) ma anche, comprensibilmente, la relazione con le famiglie, chiamate a essere parte della comunità educante attraverso la più sbagliata delle forme di coinvolgimento.

Cosa farne dunque del voto in condotta? Eliminarlo del tutto. La potenza dell’educazione sta proprio nel tenere insieme i processi di apprendimento, l’acquisizione di competenze e le pratiche sociali. Come eliminarlo? Basta formare gli insegnanti in modo adeguato sulla pedagogia della valutazione e condividere con studenti e famiglie questa riflessione.

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