Ci risiamo. Puntuali come solo le stagioni sanno essere, arriva il caldo torrido dell’estate, con temperature che arrivano a 40 gradi. E come ogni anno, arriva la notizia dell’ennesima morte di un bracciante.

Camara Fantamadi, un ragazzo di 27 anni, originario del Mali, è morto stroncato da un malore giovedì scorso, dopo una giornata trascorsa a lavorare nei campi sotto la morsa di un caldo insopportabile.

Le cronache locali raccontano che intorno alle 17 di giovedì, dopo aver accusato un giramento di testa, ha lasciato i campi per rientrare a casa in bici. Nelle campagne tra Brindisi e Tuturano, distante ancora da casa, dove il fratello lo attendeva, il ragazzo si è accasciato senza riprendere più i sensi.

In queste poche righe c’è la storia di migliaia di lavoratori agricoli, da nord a sud, dall’Italia all’Europa, al variare delle stagioni di raccolta, viaggiano per trovare un nuovo lavoro, adattandosi a vivere in baracche fatiscenti, a lavorare a qualsiasi costo e a “dribblare” la legislazione in materia d’immigrazione.

Non solo in Italia

È una storia vecchia, rappresentativa dell’idea di lavoro, di società e di politiche produttive che nel nostro paese stenta a evolversi. E non solo nel nostro paese. L’Europa mediterranea è percorsa da fenomeni analoghi di sfruttamento in agricoltura: lo scorso agosto un bracciante di origine nicaraguense, Eleazar Blandón, è morto di fatica a Lorca, nella regione spagnola di Murcia, mentre raccoglieva cocomeri con una temperatura di 44 gradi.

In quegli stessi giorni, in Italia, uno dei più importanti discount lanciava un’offerta promozionale proponendo l’anguria a un centesimo al chilo. Non c’è un nesso diretto tra la morte di Blandón nei campi spagnoli e la promozione selvaggia sulle angurie italiane: tuttavia, questi due fatti rappresentano le due facce di un sistema agroalimentare che si fonda sullo schiacciamento dei prezzi al consumo e, così facendo, crea le premesse per la diffusione la svalutazione del lavoro, la compressione dei salari agricoli e il vero e proprio sfruttamento. Lo dimostrano le tante, troppe vittime degli ultimi anni: guardando indietro troviamo Abdullah Muhamed, morto il 25 luglio del 2015 mentre raccoglieva pomodorini a Nardò. Pomodorini che poi sarebbero finiti nei barattoli dei più grandi marchi di conserve. Per non parlare di Paola Clemente, deceduta pochi giorni prima – il 13 luglio – in un vigneto di Andria durante l’acinellatura dell’uva.

L’elenco è sterminato e non basterebbe un intera edizione di questo giornale per raccontare tutte le loro storie. Vite umane stroncate da un sistema che dovrebbe spingere politica e attori della filiera agroalimentare ad agire con tempestività, per riempire di senso gli strumenti di prevenzione dello sfruttamento che sono a disposizione ormai da tempo, o a pensarne degli altri.

Come nel caso delle ordinanze “anti caldo” introdotte dai sindaci di Nardò e Brindisi e poi dal presidente della Puglia Michele Emiliano. Ordinanze senza dubbio dovute ma che, come sempre, arrivano un minuto dopo, quando il dramma si è consumato. Eppure, che il caldo arrivi e nelle campagne ci sia lo sfruttamento non è una novità. Allora ci domandiamo: perché non si è intervenuti prima?

Gli strumenti di prevenzione inattuati

Quest’anno, ad ottobre ricorrono i cinque anni dall’approvazione della legge 199, la cosiddetta “legge anti caporalato”. Una misura importante, anche per aver rivoluzionato la concezione stessa di caporalato, con l’ampliamento delle responsabilità alle imprese che ricorrono alla intermediazione illecita. Ma finora abbiamo visto attuare quasi unicamente la parte repressiva di quella legge. Per regolare il mercato del lavoro, si è fatto ricorso cioè al diritto penale. Non è un caso se, negli ultimi anni, sono state aperte tante inchieste giudiziarie per caporalato. Eppure il problema è ancora lì. Anzi, tra agenzie interinali e lavoro grigio, caporali e aziende hanno sviluppato forme più “raffinate” di sfruttamento, sfuggendo così ai controlli dello stato.

Sul piano delle misure di prevenzione – ovvero di quell’insieme di misure che dovrebbero evitare il verificarsi del fenomeno – e della promozione di strumenti per la tutela dei lavoratori previste dalla legge, c’è ancora molta strada da fare. La Rete del lavoro agricolo di qualità, lo strumento che nelle intenzioni originarie dovrebbe raggruppare le aziende agricole “caporalato free” in Italia, pur con le dovute distinzioni regionali fatica a decollare e così anche le sezioni territoriali che la stessa Rete avrebbe dovuto attivare. Sezioni che agiscono su temi cruciali come trasporto, accoglienza e incontro tra domanda e offerta di lavoro, la “criptonite” verde su cui nessuno vuole e riesce a mettere le mani. Ma lo sfruttamento del lavoro in agricoltura si previene anche con un’ottica di filiera, perché l’altra faccia delle donne e degli uomini morti nelle campagne è il cibo che acquistiamo, spesso a prezzi bassissimi. In questi anni, con Terra!, abbiamo denunciato gli squilibri della filiera agroalimentare, che vede da un lato la grande distribuzione organizzata e imprese multinazionali macinare profitti, dall’altro lavoratori sfruttati. E al centro, la categoria dei produttori, l’anello che sfrutta ed è sfruttato a sua volta da un mercato che impone condizioni capestro e che spesso rendono insostenibile portare avanti un’attività. Se davvero si vuole evitare l’ennesima tragica morte sui campi, se davvero si vogliono evitare parole di commozione che puntualmente si ripetono ma che non servono a niente, allora è il momento di agire. Per esempio approvando subito il disegno di legge che vieta il ricorso alle aste al doppio ribasso – un sistema che Terra! denuncia da anni perché è il terreno di coltura dello sfruttamento – e che, al momento, è ancora fermo al Senato.

Sempre al fine di riequilibrare la filiera, il governo dovrebbe emanare quanto prima il decreto legislativo che renderà attuabile, anche in Italia, la direttiva Ue sulle pratiche commerciali sleali nella filiera. Il decreto limiterebbe alcune misure vessatoriepraticate da parte della grande distribuzione, come il ritardo nei pagamenti ai fornitori, le vendite sottocosto e i ricarichi di spese per pubblicità dei prodotti non richieste dai fornitori.

La prevenzione

Strumenti di prevenzione come questi dovrebbero essere discussi al Tavolo operativo per la definizione di una nuova strategia di contrasto al caporalato e allo sfruttamento lavorativo in agricoltura, presieduto dal ministro del Lavoro, che riunisce enti istituzionali nazionali e regionali, parti sociali e terzo settore. Il Tavolo però, come spesso accade, stenta a decollare.

Va inoltre affrontato il problema strutturale legato alle politiche migratorie del nostro paese. Senza una radicale riforma, infatti, i lavoratori stranieri saranno sempre vulnerabili. Secondo i dati Inps del 2019, la componente di manodopera straniera in agricoltura copre il 30 per cento del lavoro dipendente nel settore. Ma se consideriamo chi ha un lavoro irregolare, la percentuale cresce vertiginosamente.

A questo enorme contributo all’economia nazionale non corrispondono spesso i più basilari diritti. Nel nostro paese essere lavoratori stranieri significa combattere con burocrazia e leggi incomprensibili tutti i giorni, come dimostra la storia di Karim (il nome di fantasia), un giovane ragazzo che, dopo aver seguito un progetto di Terra!, essersi formato in agricoltura, aveva ricevuto un’offerta di lavoro (regolare) da un’azienda agricola. Nel frattempo, in un sistema di accoglienza che fa acqua da tutte le parti, Karim ha ricevuto un decreto di espulsione per cui quel contratto non ha potuto attivarlo e si è visto costretto a tornare nel ghetto di Borgo Mezzanone, uno dei tanti insediamenti informali che puntellano il nostro stivale, dove i caporali reclutano manodopera a basso costo.

Per affrontare e risolvere la piaga del caporalato, dobbiamo superare il dramma dei ghetti, strutture da chiudere non – come auspicano le forze più retrive – mandando l’esercito o le ruspe. La via è più complessa, perché serve un piano concreto e condiviso con chi in questi insediamenti ci abita, per arrivare a situazioni alloggiative consone in abitazioni vere.

Se si vuole davvero provare a migliorare la vita di queste persone, allora bisogna cancellare la Bossi-Fini, la legge sull’immigrazione che da ormai 20 anni alimenta questo meccanismo, portando sempre più persone a riversarsi nei ghetti di questo paese, dimenticati dalla società.

Un punto di inizio per riaprire il dibattito sul tema doveva essere la regolarizzazione avviata nel 2020 con il decreto Rilancio, che avrebbe potuto rappresentare una boccata di ossigeno per molti lavoratori irregolari. Eppure a un anno dall’apertura della finestra per consegnare le domande di emersione, solo 11mila persone delle 220mila che hanno fatto richiesta hanno ricevuto il permesso di soggiorno per lavoro: il 5 per cento. Secondo i dati della campagna Ero Straniero, a Roma, fino al 20 maggio, su un totale di circa 16mila domande ricevute, solo due pratiche sono arrivate alla fase conclusiva e non è stato ancora rilasciato alcun permesso di soggiorno.

Queste lungaggini politico-burocratiche, insieme a norme ormai obsolete e farraginose, hanno contribuito al perdurare del fenomeno dello sfruttamento del lavoro e del caporalato in agricoltura.

Quanti lavoratrici e lavoratori dovranno perdere la vita nei campi per mettere fine a questa vergogna?

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