Il volto esausto, un timido saluto in italiano, imparato durante gli otto anni di collaborazione con i soldati e i diplomatici del nostro paese e di altri paesi occidentali a Kabul. Ahmed, lo chiameremo così, è uno dei circa mille profughi afghani accolti a Roma dopo la fuga dal regime talebano. Accetta di farsi intervistare solo a volto coperto e dietro promessa di non rivelare il suo vero nome: i genitori, il fratello maggiore e la sorella sono ancora in Afghanistan e il timore di ritorsioni è troppo forte.

I talebani hanno dato fuoco alla sua macchina, distrutto il suo ufficio e massacrato di botte suo padre perché non ha voluto consegnarlo. «Ora è in ospedale. Temo per lui e per tutta la mia famiglia. Se li prendono, potrebbero ucciderli».

Trentatré anni compiuti da poco, Ahmed era un dipendente dell’ormai ex ministero dell’Interno afghano. E ora non crede alle promesse di pace, tolleranza e prosperità gridate ai media internazionali dal nuovo governo talebano: «Non si può nemmeno chiamare governo, non hanno nessuna competenza. La prima cosa che hanno fatto è stata giustiziare alcuni oppositori nelle strade e nelle piazze. Sono solo degli assassini, dei terroristi».

È fuggito dal suo paese appena 48 ore prima dell’attentato all’aeroporto di Kabul, a bordo di uno dei pochi aerei messi a disposizione dall’Italia e dagli altri paesi occidentali. In molti, racconta, hanno perso la vita cercando di fare lo stesso: «Davanti al gate c’era talmente tanta gente che qualcuno è rimasto schiacciato e ucciso nella calca. Hanno portato via i cadaveri davanti ai nostri occhi. È un’immagine che non potrò mai dimenticare».

Ahmed la rivede negli incubi che lo perseguitano da oltre una settimana. A stento riesce a dormire con l’aiuto di sonniferi e farmaci.

A dargli supporto fisico e psicologico è la Asl Roma 1, che segue circa 150 profughi in diverse strutture di accoglienza, tra i quali anche diverse donne e bambini: «Sono per la maggior parte collaboratori dell’Italia in Afghanistan con le loro famiglie», spiega il dottor Giancarlo Santone, responsabile del SaMiFo (Centro di Salute per Migranti Forzati). «Forse garantire loro un lavoro e una vita dignitosa è una piccolissima ricompensa che noi dobbiamo a queste persone».

Una nuova vita che Ahmed vorrebbe costruirsi in Germania: «Ho dei parenti laggiù. Ricongiungermi a loro mi aiuterebbe a ricominciare».

© Riproduzione riservata