Questo articolo è come un coccodrillo, il pezzo sui personaggi illustri che nelle redazioni viene preparato in anticipo e tirato fuori dal cassetto quando l’interessato passa a miglior vita.

Qui il defunto è Alitalia che con gli ultimi voli di giovedì 14 ottobre ha chiuso davvero, dopo una lunga vita di 75 anni.

Alitalia se ne va e si lascia dietro una caterva di soldi pubblici macinati in decenni di gestioni pubbliche e private disastrose, tranne qualche rara eccezione, 13 miliardi di euro secondo le stime più accreditate, 500 milioni di passivo all’anno in media negli ultimi tempi.

Non è escluso che il marchio rimanga, quella specie di A tricolore sull’alettone di coda che in certi periodi lontani, quando la compagnia era tra le prime dieci del mondo, funzionava come biglietto da visita dell’Italia e una promessa di stile.

Secondo le ultime indiscrezioni il marchio dovrebbe passare a Ita, la compagnia che nelle intenzioni del governo dovrebbe diventare la nuova Alitalia, ma che non sarà la stessa cosa.

Marchio svalutato

Già le modalità di questa transazione sul marchio la dicono lunga su quanto il nome e il prestigio di Alitalia siano ormai un residuo storico. Messo all’asta a 280 milioni di euro quel marchio non l’ha voluto nessuno e con la sua consueta brutale franchezza Michel O’Leary, il padrone della compagnia low-cost Ryanair che veniva indicato come il più interessato alla faccenda, ha detto che non gli importava nulla perché quello è il logo di un’azienda impresentabile.

Ita il marchio forse se lo aggiudicherà a una cifra tre volte inferiore e i soldi incassati dagli amministratori straordinari della compagnia andranno in articulo mortis a pagare gli stipendi dei dipendenti.

I quali, indicati da più parti come saprofiti dell’azienda, in realtà in questi ultimi anni sono stati soprattutto vittime. Tutti gli indicatori dicono che, salvo casi isolati, la media degli stipendi dei piloti, degli assistenti di volo e del personale di terra è sostanzialmente in linea con quella delle altre compagnie, comprese le low cost.

I fasti passati

C’erano e ci sono casi di comandanti con buste paga da nababbi e ovviamente storture di ogni specie all’Alitalia.

Tipo le sponsorizzazioni miliardarie (in lire) di un tempo, un albero della cuccagna pagato con soldi pubblici al quale stava appeso un po’ di tutto, politica, sindacati, associazioni, un po’ di giornalisti, sagre paesane, circoli sportivi, associazioni religiose, feste patronali, processioni, attori e attrici, nani e ballerine. E perfino signore indicate come intime dell’amministratore delegato di turno.

Rientra nella categoria dello scialo il costoso trattamento riservato ai sindacalisti, i famosi permessi sindacali, concordati con i sindacalisti stessi.

La leggenda metropolitana sui dipendenti rovina azienda cominciò a circolare con maggiore insistenza nel 2008, ai tempi in cui Silvio Berlusconi capo del governo intese salvare a modo suo Alitalia.

Mazzolare i lavoratori serviva a preparare il terreno per mandarne a casa la metà, 10 mila su 20 mila circa, ed evitare allo stesso tempo che si mettessero di traverso ostacolando il passaggio dal padrone pubblico al privato, rappresentato da un manipolo di imprenditori lontani mille miglia dal business dei cieli, ma a cui era stato conferito l’arduo compito di riportare le cose in regola.

La storia dice che la transizione da pubblico a privato più il salasso dei lavoratori non sono serviti granché, anzi, da allora le cose sono precipitate e le perdite accumulate sono state di circa 3 miliardi e mezzo di euro.

Coazione a ripetere

Dopo sei anni i «patrioti» di Berlusconi hanno alzato bandiera bianca e sono stati chiamati gli arabi di Etihad come fossero cavalieri bianchi.

Anche loro hanno di nuovo cominciato dai lavoratori, via altri 2.250 dipendenti.

La situazione è continuata a peggiorare a riprova che, come dicono a Napoli, il pesce Alitalia ha sempre puzzato dalla testa e che forse il problema è il suo modello di business.

Con una gestione di nuovo arruffata, con la parte italiana ridotta a un ruolo ancillare e spesso messa in subordine rispetto agli interessi preminenti degli arabi, Alitalia si è di nuovo avvitata in picchiata e dopo tre anni è finita in amministrazione straordinaria.

È storia recente: come amministratori sono stati scelti personaggi che con il business dei voli avevano poco da spartire.

I risultati sono stati per l’ennesima volta rovinosi: altri 4 miliardi di soldi pubblici fumati che potrebbero diventare addirittura 5 se prima o poi, chissà quando, gli amministratori decidessero di pagare i creditori della compagnia.

Con una specie di coazione a ripetere ora anche Ita per volare «pulita e sana» parte con 750 milioni di euro pubblici, prima tranche di un totale di 3 miliardi, e falcidia i dipendenti tenendo solo 2.800 persone su un organico di 10.400. I piani industriali, le strategie, l’analisi dei mercati ancora una volta vengono dopo, se vengono.

Ci sarà bisogno del decimo rinnovo della cassa integrazione per circa 7.600 persone, altri soldi pubblici, fino a settembre 2022 per il momento. Per andare oltre ci vorrà addirittura una legge ad hoc che stanzi altri quattrini dello stato.

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