Quando sabato si aprirà la 60esima edizione della Biennale di Venezia, per volontà dell’artista Ruth Patir e delle due curatrici dell’esibizione, il padiglione israeliano che ospita (M)otherland rimarrà chiuso «fino a che non sarà pattuito un cessate il fuoco e non saranno liberati gli ostaggi», si legge sul cartello appeso alla porta d’ingresso.

Ma sebbene il desiderio dell’artista e delle curatrici sia di tenere chiusa l’esposizione, il ministro delle Cultura israeliano potrebbe invece farne riaprire le porte, dal momento che il padiglione è considerato territorio dello Stato ebraico, il quale ha contribuito a coprire più della metà delle spese per la sua realizzazione.

La decisione di chiudere il padiglione non era stata precedentemente comunicata al governo di Israele. Ma la chiusura non equivale a una cancellazione: dalle finestre sarà possibile vedere Keening, un video in cui sono state animate le immagini di antiche statue femminili della fertilità.

Patir ha spiegato che si tratta di una «scelta di solidarietà con le famiglie degli ostaggi e la grande comunità di Israele che chiede un cambiamento». L’artista non ha preso questa decisione a cuor leggero: «Come artista ed educatrice rifiuto fortemente il boicottaggio culturale, ma ho una grande difficoltà a presentare un progetto che parla di vulnerabilità per la vita in un momento in cui non c'è rispetto per essa».

L’artista è stata scelta dal ministero della Cultura israeliano come sua rappresentante alla Biennale un mese prima che Hamas decidesse di attaccare lo Stato ebraico e rapisse gli ostaggi. Dopo l’inizio della guerra, Patir ha partecipato alle proteste che si sono tenute a Tel Aviv per chiedere un accordo per il rilascio degli ostaggi e le dimissioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Il suo lavoro, incentrato sul tema della fertilità e sulle antiche statuette di donne che la rappresentano, è stato influenzato dalle immagini della guerra che passano sui canali all news: «Vedere queste donne spezzate in relazione a tutte le immagini delle notizie era quasi scatenante».

Richieste di esclusione

L’esclusione di Israele dalla Biennale era già stata chiesta a febbraio dal gruppo di attivisti Art Not Genocide Alliance con una lettera firmata da 23mila artisti: «Qualsiasi rappresentazione ufficiale di Israele sul palcoscenico culturale internazionale è un sostegno alle politiche e al genocidio a Gaza».

Sulla questione gli organizzatori della Biennale di Venezia si sono espressi dicendo che tutti gli stati riconosciuti dal governo italiano sono liberi di partecipare.

Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si è spinto anche oltre: Israele, ha detto, ha sia «il diritto di esprimere la sua arte e il dovere di dare testimonianza ai suoi cittadini in un momento come questo, in cui è stato attaccato così brutalmente da spietati terroristi».

La richiesta del gruppo di attivisti si basa sul precedente del Sudafrica, escluso per volere dei governi italiani dalle esibizioni della Biennale dal 1968 al 1993 a causa del regime di apartheid vigente in quegli anni nel paese.

Nei venticinque anni di assenza del paese africano dalla mostra si sono succeduti in Italia 28 governi, in maggioranza democristiani, i quali hanno aderito all’embargo commerciale e alla condanna unanime dell’apartheid da parte dell’opinione pubblica internazionale. Con la fine della segregazione razziale nel 1991, il Sudafrica espose a Venezia nel 1993.

Russia e Ucraina

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, due artisti russi, Kirill Savchenkov e Alexandra Sukhareva, si erano rifiutati di rappresentare il loro paese alla Biennale.

Su Instagram e Facebook avevano rilasciato una dichiarazione: «Non c’è spazio per l’arte quando i civili muoiono sotto i bombardamenti, quando i cittadini dell’Ucraina si nascondono nei rifugi, quando i manifestanti russi vengono messi a tacere».

Anche quest’anno la Russia non sarà rappresentata all’esposizione d’arte veneziana e il suo padiglione è stato affidato alla Bolivia.

Tra gli addetti ai lavori della Biennale si vocifera di boicottare l’installazione artistica e quindi di non entrare nel padiglione russo che, ricordiamo, è considerato a tutti gli effetti un loro territorio.

Alla 60esima edizione saranno presenti anche alcuni artisti palestinesi, che esporranno sia nell’esibizione principale curata centralmente, sia in un evento a margine, con una mostra dal titolo South West Bank.

Un’artista presente alla South West Bank, Dima Srouji, ha commentato la decisione di Patir: «Un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi significa ordinaria amministrazione per il padiglione israeliano, ma per noi è la continuazione di 75 anni di occupazione e lo status quo della segregazione. Combattiamo per la nostra liberazione, non solo per il cessate il fuoco, nel 2024».

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