Quanto è difficile (e rischiosa) la vita degli allergici nei ristoranti

Cibo è il nostro inserto mensile che racconta il mondo attraverso ciò che mangiamo. Esce l’ultimo sabato di ogni mese sulla app di Domani e in edicola. In ogni numero svisceriamo un tema diverso con articoli, approfondimenti e commenti: il tema del numero di questo mese è come si salvano i ristoranti. Qui troverete man mano tutti gli altri articoli di questo numero. In questa pagina, invece, tutti gli altri articoli di Cibo, che è anche una newsletter gratuita. Ci si iscrive a questo link. La notizia della morte dello chef italo-americano Michael Chiarello, avvenuta nell’autunno di due anni fa, aveva sconvolto tutti. Celebre volto della televisione con i suoi programmi culinari, dove aveva debuttato dopo essersi affermato con i suoi ristoranti aperti in California, è deceduto all’età di 61 anni a causa di una reazione allergica e uno shock anafilattico. Non è stato precisato da cosa sia scaturito, ma la vicenda ha riacceso l’attenzione sulle allergie e le loro conseguenze. La poco nota sindrome alfa-gal sarà sempre più diffusa. Colpa del clima Da un’indagine dell’US Centers for Disease Control and Prevention di due anni fa era emerso un dato interessante. Nel complesso, si legge nel rapporto, proprietari e personale dei ristoranti erano a conoscenza delle allergie alimentari e nella maggior parte dei casi si dicevano propensi ad ascoltare le richieste dei clienti che non potevano mangiare alcuni alimenti. Allo stesso tempo, però, oltre il 50 per cento degli intervistati non aveva mai ricevuto un qualche tipo di formazione in merito o, quando c’è stata, sono state omesse informazioni importanti, ad esempio il modo di comportarsi di fronte a una reazione allergica. Da qui una serie di tristi constatazioni, che dovrebbero essere alla base della ristorazione: è necessario formare i dipendenti, insegnargli a utilizzare strumenti diversi per preparare i piatti evitando il contatto tra i cibi, distribuire l’elenco degli ingredienti utilizzati per i piatti. In altre parole, bisogna avere un piano. Questo perché la maggior parte dei casi di anafilassi alimentare si manifesta fuori dalle mura di casa, per cui ai ristoranti viene richiesta una certa sensibilizzazione per evitare guai seri. Quanto è complicato sfuggire all’istamina Pochi casi Una mappatura degli episodi non è mai stata effettuata, per cui è impossibile avere dei dati certi su quanti episodi di shock anafilattico (dovuto al cibo) si verifichino all’interno dei ristoranti. Si tratta comunque di pochi casi in confronto alla popolazione, una ventina all’anno in Italia sebbene le allergie coinvolgano sempre più persone, e quindi il numero è al ribasso. Tuttavia una decina di anni fa la Società italiana di allergologia, asma e immunologia clinica (Siaaic) constatava che il 90 per cento delle anafilassi mortali era stato riscontrato nei ristoranti e nelle mense. Di sicuro, invece, c’è il fatto che in Italia abbiamo differenze geografiche che contribuiscono a complicare le cose. La raccomandazione dell’Ema, l’Agenzia europea dei medicinali, è che tutti gli spazi pubblici si dotino degli autoiniettori di adrenalina, essenziali e salvifici nei momenti in cui si manifesta la crisi. Ma è, appunto, una raccomandazione senza alcun obbligo. E non esiste nemmeno uniformità a livello europeo, con gli stati che si muovono con iniziative singole e sparpagliate, che non riguardano i ristoranti, ma soprattutto le scuole, luogo ad alto rischio visto che gran parte dei casi riguarda i bambini. Come ricordava qualche tempo fa Marcia Potestà, fondatrice nonché presidente di Food Allergy Italia, «gli autoiniettori di adrenalina sono dispositivi salvavita ma non tutti hanno giusto accesso alla corretta dose e inoltre, come stabilito dalle linee guida internazionali, le persone gravemente allergiche, a elevato rischio di shock, hanno diritto al doppio autoiniettore». Uno solo potrebbe non bastare, specificava la presidente della prima associazione italiana a tutela delle persone affette da allergie alimentari, che chiede alla politica di agire. L’allergia ai piselli è figlia dei nostri tempi Le etichette Il regolamento comunitario 1169/2011, a cui si è adattata la legge italiana, prevede l’obbligo di etichettare almeno quattordici alimenti che potrebbero provocare allergie o intolleranze, pena sanzioni. Parliamo di cereali al glutine, crostacei, uova, pesce, arachidi, soia, latte, frutta a guscio, sedano, senape, semi di sesamo, anidride solforosa e solfiti, lupini, molluschi. Può sembrare una lista esaustiva, ma in realtà ci sono tanti altri alimenti che possono diventare fatali. Sicuramente una parte di responsabilità ricade anche ai clienti. Comunicare le proprie allergie, assicurandosi che siano state recepite, è il primo passo per non incappare in spiacevoli conseguenze. Per non essere fraintesi, si può mostrare la propria Chef Card. Si tratta di un certificato tascabile molto simile a quello che era stato pensato ai tempi del Covid-19, su cui vengono riportati gli alimenti che una persona non può ingerire, né che possono essere cucinati a contatto con altri cibi. In questo modo i ristoratori possono stare più tranquilli, sicuri di non sbagliare. «Questa è un’allergia, non una preferenza!», è la scritta in grassetto che appare sul foglio. Casomai a qualcuno passi per la mente che l’allergia alimentare sia un capriccio. [Missing Caption][Missing Credit]