Dalle oche nutrite di fichi nell’antica Roma alle vacche che mangiano nocciole, fino alle galline che bevono latte di capra. La storia della gastronomia è piena di esempi di animali che vengono nutriti con alimenti raffinati per avere un prodotto di qualità
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Iecur è il termine latino impiegato per secoli dai romani per indicare il fegato. In età imperiale, però, questo vocabolo di origine indoeuropea, iniziò a essere sostituito da un altro, molto diverso. Ficatum – la nuova parola – che potremmo tradurre con ficàto, nel senso di trattato o nutrito con i fichi, è la forma breve di iecur ficatum, locuzione che indicava una sorta di fegato grasso di origine greca (dove era chiamato hêpar sykotón) ottenuto nutrendo le oche esclusivamente con fichi nella fase finale della loro vita.
Quando dalla Grecia arrivò a Roma, lo iecur ficatum ebbe un successo così dirompente che presto divenne il termine con il quale riferirsi al fegato anche fuori dall’ambito gastronomico. Questa piccola storia etimologica è interessante perché da un lato ci conferma quanto la gastronomia sia centrale nella nostra cultura, al punto da contribuire a definire il modo in cui chiamiamo le cose; dall’altro perché ci racconta come già in epoche lontane dalla nostra si fosse sviluppata l’abitudine di ottenere prodotti migliori lavorando sull’alimentazione degli animali da allevamento.
Se, infatti, siamo soliti trattare il tema dell’alimentazione animale riferendoci soprattutto a situazioni di cattiva nutrizione – tutti, per esempio, conosciamo o dovremmo conoscere, i problemi legati all’impiego di antibiotici negli allevamenti intensivi – non dobbiamo dimenticare che esistono metodi di allevamento che garantiscono di ottenere prodotti migliori per noi sul piano gustativo tutelando il benessere degli animali.
Il foie gras sostenibile
Restando, per esempio, nell’ambito di uno dei prodotti più apprezzati, ma anche più controversi che esistano, il foie gras, da qualche anno sono andate sviluppandosi pratiche che hanno l’obiettivo di ingrassare il fegato di oche e anatre senza ricorrere al gavage, l’alimentazione forzata normalmente impiegata in Francia e in altre parti del mondo. La tecnica alternativa, ed eticamente più accettabile, è un’evoluzione della pratica greco-romana descritta poco fa.
A metterla a punto è stato l’allevatore spagnolo Edouardo Sousa che nella sua fattoria di Badajoz, comune dell’Estremadura a sud-est di Madrid, sfrutta la naturale predisposizione delle oche a ingurgitare enormi quantità di fichi e di olive con l’obiettivo di accumulare energia sotto forma di grasso per poter affrontare con serenità la migrazione. Il foie gras della Paterìa de Sousa non solo non prevede che le oche siano ingozzate dall’uomo, ma è prodotto rispettando i cicli naturali dell’animale ed è quindi più raro e costoso (180 g di prodotto costano 199 euro), caratteristiche che un prodotto di questo tipo dovrebbe sempre avere, anche per ricordarci lo sforzo necessario per ottenerlo.
Ghiande ai porci
Il metodo utilizzato da Sousa ricorda la tradizione, anch’essa spagnola, ma sempre più diffusa anche in altre zone d’Europa, di spingere i maiali neri allevati allo stato semibrado o brado a nutrirsi di ghiande.
Una tecnica che porta allo sviluppo di un grasso con caratteristiche molto diverse da quelle che si ottengono con un’alimentazione a base di cereali, in particolare se si guarda al rapporto tra grassi saturi e insaturi con una prevalenza di questi ultimi. Si ha così un grasso dolce, che si scioglie a temperature più basse e che dà un generale senso di untuosità alle carni.
La vicciola
Ma le ghiande non sono l’unico frutto impiegato per l’allevamento degli animali. In Piemonte, per esempio, c’è chi ha pensato di alimentare le vacche di razza Bianca Piemontese utilizzando un’altra eccellenza regionale: la nocciola. Pino Puglisi da oltre trent’anni ha una macelleria a Torino in via Cibrario nel quartiere di Cit Turin dove serve la vicciola, il risultato di intuizione e studio.
Puglisi, infatti, cercava un modo per rendere la carne della razza bovina locale ancora più buona evitando l’impiego di integratori che accelerano la crescita muscolare a discapito di sapore, profondità e morbidezza. Da lì l’intuizione di impiegare le nocciole – di provenienza piemontese e laziale – accanto a fieno, crusca e mais. In questo modo l’animale cresce più lentamente ma sviluppa una carne magra e naturalmente untuosa, perfetta per essere consumata cruda come tipicamente viene fatto sul territorio.
Accanto all’aspetto gustativo, c’è poi quello nutrizionale: le carni della vicciola, che è prodotta in un unico allevamento nel comune di Cavour e può essere acquistata esclusivamente nella macelleria Pino, di proprietà di Puglisi stesso, hanno valori di colesterolo, per esempio, più bassi non solo rispetto ad altri bovini, ma anche se paragonati ad altri animali. E, restando nell’ambito della carne bovina e della frutta secca, è di circa un anno fa la notizia dei bovini che Mark Zuckerberg ha scelto di allevare impiegando birra e macadamia così da ottenere carni saporite e tenere.
Le uova di Parisi
L’aspetto forse più interessante di tutte le scelte che abbiamo fin qui raccontato è che queste particolari forme di alimentazione – i fichi, le olive, le nocciole… – sono contemporaneamente positive per noi e per gli animali.
Questo è il pensiero che ha accompagnato anche Paolo Parisi, il geniale allevatore di galline ovaiole, quando ormai più di 10 anni fa ha scelto di crescere i suoi animali integrando la loro dieta con latte di capra, una fonte proteica che Parisi è stato in grado sin dall’inizio di controllare direttamente senza dover ricorrere ad acquisti extra aziendali e che ha fatto diventare il suo uovo uno dei prodotti più iconici sul mercato, tanto che dopo Parisi sono stati diversi coloro che hanno lavorato per integrare la dieta delle loro galline con alimenti “eccentrici” eppure in grado di migliorare sensibilmente la qualità finale del prodotto, non ricorrendo al latte di capra, ma, nella maggior parte dei casi, a semi, in particolare di lino o di canapa.
Chiocciole metodo Cherasco
Eccentricità talvolta può significare semplicemente fare un passo indietro (o di lato) rispetto alla norma. È il caso delle chiocciole metodo Cherasco. Si tratta di semplici chiocciole – quelle che normalmente chiamiamo, sbagliando, lumache – che, invece di essere alimentate con mangimi e integratori, vengono lasciate in campo, su strisce di terra sulle quali a seconda della stagione crescono diversi ortaggi.
La chiocciola, seguendo un istinto naturale, si sposta da un ortaggio all’altro integrando la sua dieta come meglio crede e sviluppando profumi e sapori ogni volta diversi e raggiungendo un livello di qualità strutturale e sensoriale mai conosciuto prima. Chi può saperlo, magari tra mille anni quelle che oggi chiamiamo chiocciole saranno conosciute come cherasche e qualcuno scriverà questa storia da capo come abbiamo fatto noi con il ficatum dei romani.
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