Alla fine la montagna ha partorito un topolino, o forse nemmeno quello. Nonostante i solenni impegni presi alla Conferenza sul clima di Glasgow nel 2021 per un tanto auspicato taglio dei sussidi alle fonti fossili, il governo italiano e la sua agenzia di credito all’esportazione Sace continueranno a finanziare progetti di carbone, petrolio e gas all’estero almeno fino al 2028.

Che l’impegno del governo e di Sace – che si può definire assicuratore pubblico – fosse al ribasso era nell’aria, dal momento che la decisione è stata anticipata da scelte discutibili.

Sace già nel 2021 aveva adottato una politica per allineare le sue operazioni all’Accordo di Parigi sul clima, ma ha scelto di non renderla pubblica.

Sace ha continuato a prendere in considerazione l’emissione di garanzie (assicurazioni sui progetti o garanzie sui prestiti per la realizzazione degli stessi) per progetti fossili: solo quelli in fase di valutazione, se realizzati produrrebbero 3,5 volte le emissioni di CO2 annuali dell’Italia, per un totale di 1,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

A novembre 2022 l’Italia aveva già provato ad affossare i tentativi di limitare l’esposizione delle agenzie di credito a petrolio e gas, vicenda avvenuta nell’ambito di un meeting della coalizione internazionale Export Finance for Future (E3F).

Proprio dal canale LinkedIn di E3F è stato pubblicato il documento che sancisce il legame indissolubile tra finanza pubblica italiana e industria fossile, non da quelli istituzionali del governo o di Sace. Appare quindi evidente la poca volontà di renderlo pubblico.

La dichiarazione di Glasgow

Christoph Soeder/picture-alliance/dpa/AP Images

Nel novembre del 2021, in occasione del vertice Cop in Scozia, 34 paesi e cinque istituzioni finanziarie pubbliche hanno firmato un impegno congiunto, la cosiddetta “Dichiarazione di Glasgow” per porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali ai combustibili fossili entro il 31 dicembre 2022.

Un pessimo segnale quello italiano, che è arrivato proprio nei giorni in cui il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha pubblicato la sintesi finale del sesto rapporto sulla crisi climatica, da cui emerge che l’Italia è tra i paesi più vulnerabili.

Lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, afferma la necessità di cessare «ogni licenza o finanziamento di nuovi impianti petroliferi e di gas», proprio il contrario di quanto sta facendo Sace.

Per comprendere la portata dei sussidi italiani al comparto estrattivo, vale la pena ricordare che Sace, controllata dal ministero dell’Economia, si colloca al sesto posto globale e al primo in Europa tra i finanziatori pubblici dell’industria fossile.

Tra il 2016 e il 2021, l’assicuratore pubblico ha emesso garanzie per i settori del petrolio e del gas pari a 13,7 miliardi di euro, che rappresentano una fetta importante dei cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi” italiani.

Per quanto la Dichiarazione di Glasgow possa considerarsi un passaggio chiave nella lotta alla crisi climatica, si tratta pur sempre di un impegno volontario e su base nazionale, comprese le sue politiche di implementazione.

Sette tra i principali paesi sostenitori dell’industria fossile attraverso soldi pubblici hanno adottato politiche che rispettano ampiamente la promessa fatta a Glasgow: Regno Unito, Francia, Canada, Finlandia, Svezia, Danimarca e Nuova Zelanda. Altri, come Paesi Bassi, Spagna e Belgio, hanno implementato la Dichiarazione con politiche deboli, che lasciano ampi margini di supporto finanziario ai settori del petrolio e del gas. L’Italia è ora fanalino di coda.

Come ReCommon denunciava già a novembre 2021, l’iniziativa era lungi dall’essere perfetta, con una serie di scappatoie che avrebbero fatto gola al Sistema-Italia, che si basa sul triangolo finanza privata-industria fossile-finanza pubblica. Così è puntualmente avvenuto.

Fossile per sempre 

Nel documento italiano, il gas è definito combustibile di transizione, strategico per la sicurezza del paese. In seconda battuta, i progetti per esplorazione e produzione di gas potranno essere finanziati fino a gennaio 2026, e le deroghe presenti potrebbero posticipare la data ultima ancora più avanti.
Per i progetti di trasporto e stoccaggio, invece, la data ultima non è proprio menzionata perché deve essere «ancora definita». Una formula che sembra voler dire “non smetteremo mai di finanziarli”.

Per rendersi conto di quanto il mantra della sicurezza energetica sia vuoto, si può riportare un esempio: con questa policy, alcuni progetti potrebbero richiedere il supporto finanziario di Sace addirittura nel 2025.

Le multinazionali proponenti, con il supporto di quelle costruttrici, potrebbero ultimarli nel 2030 e il gas prodotto arrivare in Italia solo dal 2031. Risulta difficile credere che otto anni sia un lasso di tempo emergenziale tanto da invocare la “sicurezza energetica”.

Senza contare che solo una minima parte del gas prodotto arriverà in Italia, come dimostrato dal progetto Coral South FLNG di Eni: supportato finanziariamente da Sace con 700 milioni di dollari, la prima nave gasiera proveniente dal progetto in Mozambico è finita a Bilbao e non in Italia.

Sembra quasi che questa politica di implementazione di Glasgow sia un regalo alle multinazionali energetiche e alle istituzioni finanziarie, a cui il governo italiano fa da sponda per trasformare l’Italia in hub mediterraneo del gas.

Hub per rivenderlo ad altre multinazionali o paesi, non per le necessità del tessuto produttivo italiano: il gas c’è e ci sono già decine di progetti estrattivi funzionanti.

Un dubbio inevitabile visto che il presidente di Sace, Filippo Giansante, è anche membro del consiglio di amministrazione di Eni.

Il cane a sei zampe ha già ricevuto la garanzia di Sace per Coral South, e ora potrebbe approcciare l’assicuratore per Rovuma LNG, altro mega-progetto fossile nel martoriato Mozambico. La strada per una giusta transizione ecologica italiana non è mai stata così in salita.
 

© Riproduzione riservata