«Dopo essere stata condannat a 26 anni di prigione per omicidio, nel momento in cui la terra scompariva sotto i miei piedi e il biasimo del mondo intero mi pioveva sulla testa, ho avuto la mia prima epifania». A poco più di 11 anni dal processo di appello che l’ha assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher, Amanda Knox ha scritto un articolo per raccontare il processo psicologico che l’ha aiutata a sopravvivere alla prospettiva di trascorrere in prigione i migliori anni della sua vita.

Pochi giorni fa Knox aveva raccontato nuovamente la sua esperienza su Twitter (ne aveva già scritto nel suo libro Waiting to Be Heard: A Memoir). Il thread sul social network ha attirato molta attenzione e ha spinto il sito Free Press, fondato dalla giornalista Bari Weiss, a chiederle di tramutarlo in un articolo.

L’epifania

Dopo aver riassunto il caso e le vicende processuali, Knox inizia il suo racconto ricordando la reazione delle guardie che la scortavano in prigione dopo la lettura del verdetto di primo grado, arrivata dopo due anni trascorsi in carcere in attesa della sentenza. «Poverina, non ha capito cosa le è successo», dicevano. «Pensavano – scrive Knox – che visto che non stavo piangendo istericamente, probabilmente non aveva assorbito il fatto che avrei dovuto trascorrere i successivi 26 anni intrappolata in questo posto. Ma io ero silenziosa proprio per in quel momento ero seduta con la mia epifania».

L’illuminazione, spiega, era questa: «Non ero, come avevo pensato per i due anni precedenti, in attesa di avere la mia vita indietro. Non ero una povera turista sperduta in attesa di tornare a casa. Ero una prigioniera e la prigione era la mia casa».

Il pensiero del suicidio

Knox passa poi a descrivere il processo psicologico di adattamento alla sua nuova routine, una fenomeno descritto da moltissimi altri prigionieri nel corso della storia. «Non importa quando fosse meschino, crudele, triste e ingiusto il mio destino: quella era la mia vita. Ed era mio compito dargli un senso, viverla al meglio delle mie possibilità».

Knox descrive di aver pensato al suicidio, di esserselo immaginato in ogni dettaglio, di aver studiato concretamente come avrebbe potuto farlo. Immaginandosi «vividamente»il suicido e la morte, queste possibiltà «hanno smesso di sembrarmi ombre che mi avvolgevano sorgendo dai miei incubi incosci. E questo a sua volta mi ha permesso di vedere la mia vita per quello che era e di chiedermi: come posso renderla degna di essere vissuta?».

Guardare nell’abisso

In pratica, questo significava domandarsi come rendere degna di essere vissuta ogni singola giornata. E la risposta era nelle piccole cose. Fare esercizi, camminare nel cortile, scrivere una lettera, leggere un libro. «Mi svegliavo triste, passavo la giornata triste e andavo a letto triste – scrive Knox – Ma almeno non ero disperata. Era una tristezza piena di energia sotto la superficie, perché ero viva, sana di mente, in grado di vedere la realtà per quello che era».

Knox racconta di aver avuto difficoltà nello spiegare la sua epifania ai genitori. Sua madre non capiva, scrive. «Disse che mi avrebbe salvato e che io dovevo sopravvivere soltanto finché non ci fosse riuscita. Le dissi che lo avrei fatto e non era una bugia. Sarei sopravvissuta. Lo sentivo nel profondo. Ma sapevo che sarei sopravvissuta perché avevo accettato che quella era la mia vita».

Ed effettivamente, Knox è sopravvissuta. Nel 2011, poco più di due anni dalla sentenza di primo grado e dopo quattro anni di carcere, il processo di apello ha rovesciato la sentenza di primo grado e Knox e il suo fidanzato di allora, Raffaele Sollecito, sono stati liberati.

Knox racconta che la sua epifania da allora non l’ha più abbandonata. «Anche se ora sono libera, se si è fatta giustizia sul mio caso, anche se ho una carriera nelle arti (che ho sempre desiderato), anche se sono un’attivista dei diritti (che non avrei mai immaginato di essere), anche se sono una moglie con un marito innamorato, una madre con un figlio pieno di vita, sto ancora camminando sulla corda. E come tutti quelli che hanno guardato nell’abisso, così come ho fatto io, conosco bene quello strano senso di conforto di portarne un pezzo sempre con sé».

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