Interrogatori dei servizi segreti israeliani ed esami su un fucile giocattolo: a L’Aquila è iniziato il processo ad Anan Yaeesh e altri due cittadini palestinesi, accusati di sostenere dall’Italia gruppi di resistenza a Tulkarem, in Cisgiordania. Dopo la prima udienza, i legali della difesa denunciano gravi violazioni.

«Non mi era mai accaduto che il diritto di difesa venisse oltraggiato così. Il pm ha reiterato una richiesta già rigettata all’udienza preliminare: l’acquisizione come prova di interrogatori inviati da Israele di 22 ragazzi di Tulkarem arrestati, deportati nelle carceri israeliane e sottoposti ad interrogatori dello Shin Bet e poi della polizia giudiziaria», ha commentato Flavio Rossi Albertini, che insieme a Pamela Donnarumma difende il giovane.

Ciò nonostante, la Corte ha deciso di ammettere i verbali così ottenuti. Da anni associazioni come Addameer e Amnesty International denunciano il trattamento riservato alla popolazione palestinese nelle corti marziali israeliane e durante gli interrogatori, in cui sono frequenti i casi di tortura e l'assenza di un avvocato difensore.

In carcere da oltre un anno

«Signor Giudice, in passato sono stato sottoposto decine di volte alla tortura. Sono stato vittima di tentati assassinii da parte di Israele, in Palestina e all’estero. Nel mio corpo vi sono 11 proiettili e oltre 40 schegge, non ho un osso che non sia stato rotto». A raccontarlo in una dichiarazione spontanea è Anan Yaeesh, 37enne palestinese rifugiato in Italia dal 2017 e arrestato a L’Aquila nel gennaio 2024.

Il caso inizia con la richiesta di estradizione da parte delle autorità israeliane, accolta dal governo italiano e tradotta nella prima custodia cautelare presso il carcere di Terni, in attesa del pronunciamento della corte d’Appello dell’Aquila. Nel marzo 2024, la Corte rifiuta l’estradizione.

Yaeesh rischia, infatti, di essere «sottoposto a trattamenti crudeli, disumani o degradanti». Del resto, gode di protezione speciale in Italia in virtù delle violenze subite in Israele.

Tuttavia, la decisione del tribunale non basta per liberarlo. All’alba dell’11 marzo è raggiunto da una seconda ordinanza di custodia insieme a due suoi connazionali, anche loro residenti in Abruzzo. L’accusa è sempre di terrorismo, ma stavolta è formulata da una procura italiana, quella dell’Aquila. Yaeesh rimane in carcere.

Con ruoli diversi, i tre sono accusati di associazione con finalità di terrorismo, art. 270 bis del codice penale, per l’appoggio dall’Italia alle Brigate Tulkarem, considerate dall’accusa affini alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo terroristico secondo i regolamenti europei. «Il fenomeno resistenziale è ricondotto alla categoria del terrorismo invece che al legittimo diritto alla autodeterminazione dei popoli», dicono gli avvocati della difesa, in virtù della risoluzione Onu 37/42 del 1982 sulla legittimità della resistenza armata contro le potenze occupanti. Lo stesso Yaeesh si definisce partigiano palestinese.

Anche gli altri due imputati sono passati per il carcere in attesa del processo. La custodia cautelare dei due, poi annullata, arriva il giorno prima della mancata estradizione. Le prove a loro carico non sarebbero consistenti, tra queste una foto con un fucile che, a seguito dell'esame del perito balistico, si rivela da softair e non funzionante: un’arma giocattolo.

Un processo politico

Da Napoli a Trento, arrivando a Tolosa, le manifestazioni di solidarietà verso i tre cittadini palestinesi hanno invaso le piazze.

Per il giudice la decisione sull’ammissibilità delle prove israeliane dipende dall’accertamento di violazioni nei singoli interrogatori. La difesa, invece, ribadisce l'inaffidabilità di una collaborazione giudiziaria con un paese, Israele, che viola ripetutamente i principi giuridici riconosciuti dall'ordinamento italiano.

«Accettare gli interrogatori significa non solo legittimare metodi illegali, ma avvalersi di materiale frutto di un crimine di guerra: i detenuti palestinesi interrogati sono stati deportati in violazione della Convenzione di Ginevra», dichiara in una nota il comitato Free Anan. Anche l’ammissibilità dei testimoni dipende dal peso dato al contesto dell’occupazione dei territori palestinesi.

La difesa chiede l’ammissione di 47 persone, ma ne vengono accolte solo tre. Tra le persone escluse ci sono la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese e il capo dello Shin Bet Ronen Bar.

«La Corte affida la ricostruzione dei fatti alla sola Digos dell’Aquila, senza dare alla difesa la possibilità di chiamare a testimoniare figure capaci di ricostruire il contesto in Palestina. Con queste premesse possiamo parlare di un processo equo?» Quello del Comitato Free Anan è un interrogativo che rimane vivo durante la seconda udienza, dove la difesa contesta l’ordinanza che ammette gli interrogatori israeliani e la Corte rimanda la decisione al prossimo 7 maggio.

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