«Vivere in un bilocale e seguire una lezione da un telefono, mentre il tuo compagno di classe vive in una casa gigantesca con un computer, e tu stai in una stanza con poca luce e tante persone in giro. I ragazzi percepiscono fortissimamente la disuguaglianza sociale. Sarebbe difficile non percepirla» racconta Dina Giuseppetti, educatrice del centro Matemù gestito da Cies, con la mascherina davanti a una postazione con un Pc. Ne hanno 12, una in ognuna delle stanze del centro, per riportare la didattica a distanza in presenza, nonostante la zona rossa o arancione. 

Dal 18 marzo 2021, quando è partita la massima allerta anti Covid-19 in Lazio, fino alle vacanze di Pasqua, il centro, solitamente aperto il pomeriggio, ha deciso di entrare in attività tutte le mattine e ha messo a disposizione connessione e supporto educativo per ragazzi e ragazze che hanno difficoltà a connettersi da casa.

Un luogo fisico

Qui come in altri centri d’Italia, sono stati attivati già dagli anni passati progetti selezionati dall’impresa sociale Con i Bambini nell'ambito del Fondo per il Contrasto alla povertà educativa minorile, per un totale di oltre 500mila bambini e ragazzi raggiunti. Vivevano già prima della pandemia in condizione di disagio e per loro la scuola pubblica non era abbastanza. Con la pandemia l’utenza è cresciuta, e in parte cambiata. Prima i centri si occupavano di portare sostegno scolastico con aiuto alle materie e psicologico. Quando l’emergenza è arrivata, questo si è naturalmente trasformato nella possibilità di accedere a un luogo fisico: «Crediamo che tutti gli spazi territoriali possano essere utili per dare supporto alla scuola» dice Giuseppetti, una strada a cui finora nessuno sembra aver pensato in via istituzionale: «O almeno, che io sappia no, ma i punti di aggregazione giovanile sono in tutti i municipi» racconta l’educatrice.

Nel loro spazio di 400 metri quadrati e giardino annesso, se nella prima fase della pandemia avevano lavorato in streaming colti alla sprovvista dal contagio, con l’arrivo dell’estate si sono attrezzati: «Abbiamo fatto attività anche in giardino e siamo andati avanti fino a dicembre. Così abbiamo ripreso i nostri corsi a piccolissimi gruppi, per il teatro, o uno alla volta» spiega, mentre da una delle stanze arriva il suono – più rumore in realtà – di un ragazzo che impara la tromba. «Lavoriamo per superare la disparità di accesso alla cultura e all’arte, sono gli elementi primari di inclusione e di possibilità di riscatto». Che adesso riguardano anche una connessione e un dispositivo, ma anche un momento in cui socializzare.

La mescolanza

I ragazzi che frequentano il centro sono in parte italiani, in parte stranieri: «Spesso parliamo di seconda generazione, potremmo dire comunque rispettivamente 40 per cento e 60», dice la coordinatrice. La maggioranza con problemi economici o sociali. C’è stato un periodo in cui si parlava di plexiglas anche in spiaggia, ora il tema è passato di moda, ma nella sala dove si studia canto ci sono due pannelli con le rotelle da mettere davanti a chi deve imparare. Per sicurezza. Anche se le attività sono cambiate hanno fatto di tutto per continuare.

«Due anni fa è venuto da noi un ragazzo che adesso ha 13 anni, di origine filippina che aveva smesso di frequentare la scuola. Parliamo delle scuole medie». Sono stati contattati dalla sua insegnante e hanno parlato anche con sua madre. «Vengono da noi anche i suoi fratelli, lui è venuto per la scuola, ma adesso fa anche chitarra ed è venuto per la Dad. Il centro diventa un punto di riferimento per tutti, dalla scuola alla famiglia». Deve essere il più inclusivo possibile: «Nessuno vuole essere etichettato come disagiato» dice la coordinatrice Giuseppetti, e la mescolanza è fondamentale.

«Prima che arrivasse la pandemia abbiamo avuto oltre 170 ragazzi in un solo giorno» racconta Adriano Rossi, anche lui coordinatore di Matemù. Il centro non coinvolge soltanto ragazzi in difficoltà, ma è aperto a tutti. Francesco, 18 anni, in arte Francy Foxer, nonostante sia martedì dopo Pasqua, è al centro per la sua lezione di rap. È arrivato autonomamente quando ha saputo delle attività: «Prima avevamo il corso più ragazzi insieme, adesso uno alla volta, ma con quelli che sono rimasti continuiamo a sentirci». L’anno scorso ha scritto una canzone che parla del Covid-19. Si intitola “Nostalgia”.

Il disagio di tutti

«La situazione peggiore è quando non si lamentano di questo stare a casa, il problema sono quei ragazzi che hanno trovato una zona di comfort solitaria» dice Giuseppetti. «I genitori e gli insegnanti ci hanno spiegato che si isolano nelle loro case, a volte nelle loro stanze. Però attenzione: era un problema che si stava manifestando già prima del Covid-19, c’era già il tema dell’adolescenza e dell’isolamento». 

Un altro centro dove è arrivato il Fondo per il contrasto alla povertà educativa, è The Tube di Fermo della Comunità di Capodarco, nelle Marche, dove insieme a Con i bambini è nato il progetto “No neet” contro la povertà educativa e la dispersione scolastica. Anche loro, partiti prima del Covid-19, hanno dovuto reinventarsi e hanno deciso di aprire anche la mattina per la Dad. Chiara Attorre, psicoterapeuta e coordinatrice, racconta: «In questa situazione chiunque può trovarsi in difficoltà. Quando sono tornati una ragazza era entusiasta e mi ha detto: “che bello, era da tantissimo che non mi truccavo”, anche se a volte abbiamo avuto ragazzi che non se la sentivano di venire, e allora noi li chiamavamo». Il disagio della pandemia diventa spesso scolastico: «Una ragazza del primo anno di ragioneria turistica a novembre si è ritrovata in Dad, quando è arrivata da noi abbiamo scoperto che aveva fatto un enorme numero di assenze, a gennaio aveva 8 insufficienze su 13 materie, eppure era lei ad avere scelto la sua nuova scuola. Abbiamo cominciato a lavorare, l’abbiamo preparata per le interrogazioni e a febbraio ne ha recuperate 5». Tra le insufficienze anche lo spagnolo, nonostante sua madre fosse cubana: «Lo parla benissimo, per lei era una sofferenza».

Il futuro smart

«La più grande difficoltà che abbiamo avuto è stata quella di doverci reinventare costantemente e in tempi brevissimi» dice ancora Attorre. Ma le associazioni spingono perché tutto quello che è stato fatto non si limiti all’emergenza. La presidente del Cies, Elisabetta Melandri, partendo dalla sua esperienza lavorativa prevede che nel futuro, pandemia a parte, qualcosa resterà: «È prevedibile che tutta l’educazione si convertirà in un miscuglio, tra esperienza in presenza e da remoto. Per questo è importante un presidio di educazione non formale che dia supporto alla scuola». Se è già partita la riflessione se lo smart working sia veramente “smart”, o una semplice digitalizzazione del lavoro come lo abbiamo sempre conosciuto, per la scuola il tema non è stato ancora posto: «Gli insegnanti non hanno piena consapevolezza degli strumenti, cercano di fare lezione come prima» racconta la presidente, «quando invece ci potrebbe essere flessibilità di orario, potrebbero essere cucite sulle esigenze quotidiane, potrebbe essere organizzato meglio il lavoro». 

Anche in un momento cruciale come quello degli esami dell’ultimo anno delle scuole superiori. Francesco si sta preparando: «Dovrei fare gli esami, sarà solo orale come l’anno scorso. Sono un po’ preoccupato, ma se la modalità è questa – ride – sono un po’ più fiducioso».

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