Nella prefazione del 1845 a La situazione della classe operaia in Inghilterra, Friedrich Engels scriveva di aver voluto dare un quadro fedele delle condizioni di vita degli operai; aveva vissuto tra loro ed esaminato documenti ufficiali e non. Non voleva fare un’analisi “astratta” ma descrivere la loro vita quotidiana. Disprezzati dalla classe media per le condizioni subumane di vita, degradati a plebe di falliti «dagli affaristi e dai perbenisti», quegli operai erano una «classe oppressa e calunniata di persone». Se Engles fosse vivo oggi andrebbe tra i rider, i “ciclofattorini”, la fotografia del capitalismo dell’algoritmo.    

Ci sfrecciano accanto spesso a rischio di investirci, sempre più numerosi. Liberi come l’aria, non straccioni anneriti dal carbone. Il rider è padrone del suo strumento di lavoro, come gli antichi liberi delle armi; è chiamato imprenditore. Tutto sulle sue spalle per libera scelta.

Ma a leggere le ordinanze dei Tribunali che denunciano relazioni schiaviste di lavoro, pare che quella libertà sia l’equivalente dei muri delle vecchie fabbriche. Una libertà che designa una condizione di estrema dominazione. Di nuovo vi è la depersonalizzazione delle relazioni di lavoro. Un algoritmo decide i tempi di percorrenza, le consegne, e la penalizzazione se i rider impiegano più tempo del previsto assegnando loro fasce orarie di lavoro più svantaggiate il giorno dopo. 

L’algoritmo dà un punteggio a ciascun rider in base a due parametri: “affidabilità e partecipazione”.  Si legge nell’ordinanza del Tribunale di Bologna che «ciascun rider viene periodicamente “profilato” tramite “statistiche” elaborate dalla società che valutano il tasso di rispetto delle ultime 14 giornate di sessioni di lavoro dallo stesso prenotate e non cancellate nel termine di 24 ore previsto dal regolamento». 

Se il capitalismo di cui parlava Engels aveva agenti visibili, quello dell’algoritmo si nasconde dietro la finzione dell’impersonalità: con chi prendersela, dunque, con i numeri e la statistica? Ma i tribunali hanno squarciato il velo del mito. Mostrando che (udite udite!) l’algoritmo dipende dalla volontà di profitto e sfruttamento. I parametri di misurazione del tempo o di “punizione” o il sistema di “punteggio”, tutto ripropone quel che gli operai delle fabbriche conoscevano bene: il cottimo.

L’impersonalità del capitalismo dell’algoritmo è retorica. E’ sufficiente una contestazione dei lavoratori davanti ad un tribunale a provarlo: appena conosciuta l’accusa di discriminazione e sfruttamento, i responsabili dell’azienda Deliveroo Italia s.r.l. hanno cambiato i parametri dell’algoritmo. E si sono così confessati dei classici padroni.  La programmazione dell’algoritmo è in ragione del profitto, l’impersonalità un’utile finzione. E può (deve) essere contestata con le armi del diritto e della giustizia che con durissima fatica hanno costruito generazioni di lavoratori, dai tempi dei cenciosi operai di Londra. Sono le armi della legge contro l’arbitrio che alcune democrazie hanno messo in calce alle loro costituzioni: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».

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