Negli ultimi giorni ci sono estati errori e omissioni in Serie A e in Champions League, tanti da rianimare il partito di chi vorrebbe abolire il video arbitraggio. In realtà la tecnologia funziona, il paradosso è che viene usata dentro una stanza lontana dal campo da persone sedute davanti a un significativo numero di schermi senza consapevolezza dell’intensità di un contatto. Soluzioni: più review dell’arbitro in campo e challenge a chiamata dalla panchina
Settembre 2017, il mostro era attivo da poche settimane e aveva già palesato i suoi superpoteri. Il mostro con la minuscola – nulla a che vedere con l’altro che aveva la maiuscola, il Moviolone grottesco comparso al Processo di Biscardi a inizio anni Novanta – era ai suoi primi vagiti e il grande dilemma era se chiamarlo al maschile o al femminile, ma c’era già chi storceva il naso: troppo tempo per decidere, addio alla genuinità, oddio il futuro, che paura.
Video Assistant Referee, eccolo il mostro, e Marcello Nicchi, allora presidente Aia, difese il debutto senza remore: «La Var ha dimostrato di essere quasi infallibile», disse.
Il dogma dell’infallibilità
Quasi un dogma. Oggi, dopo una decina di giorni nei quali errori, opere e omissioni hanno fornito prove concrete per una condanna senza appello, si potrebbe sostenere che quelle parole siano invecchiate malissimo, in mezzo al fragore del fuoco di fila che mira al Var: il tocco di mano di Gatti a Como, quello di Lang precedente il gol del Psv contro la Juve in Champions, l’angolo inesistente che ha portato all’1-0 dell’Inter con la Fiorentina, il rigore fischiato al Bruges contro l’Atalanta, i rigori non assegnati in Torino-Genoa, e al riassunto manca sicuramente qualcosa.
Invece no: Nicchi aveva ragione, perché la tecnologia ha effettivamente dimostrato di essere quasi infallibile, vale la pena ricordarlo soprattutto ora: non ha senso il ravvedimento sulla bontà di uno strumento che rappresenta un aiuto in più.
Posto che: 1) la tecnologia ha funzionato dove segnala riferimenti geografici come goal line technology e fuorigioco semiautomatico – anche se qui si può discutere il regolamento, ma è un’altra cosa; 2) su palla in gioco o no, su calciatori in gioco o meno vale ormai il vecchio adagio secondo cui a chi tocca nun se ‘ngrugna; bisogna per il resto sottolineare che il sistema Var, anche laddove viene contestato, ha ridotto il margine di errore dei direttori di gara.
Fermiamoci e guardiamo le cose nella loro reale prospettiva: quante volte dal 2017 a oggi il Var ha emendato episodi chiave – reti, rigori, espulsioni, scambi di identità – valutati male? Una statistica non c’è, ma la risposta è empirica: tantissime. Per questo, sì, la tecnologia, nella sua neutralità, è quasi infallibile. Sono l’uomo e le sue regole a non esserlo.
Il paradosso: decidere senza esserci
Appunto, l’uomo, la sua sensibilità, ma anche solo la sua presenza, perché le tecnologie arbitrali si portano dietro un paradosso inconciliabile con un gioco di situazione com’è il calcio: Var e Avar designati per le varie partite lavorano in centri appositi e pertanto solo ed esclusivamente da remoto, davanti a un significativo numero di schermi e con diverse animazioni possibili, e per questo non possono avere la piena consapevolezza dell’intensità di un contatto, di un colpo, di uno scontro.
Decidono su ciò che accade in campo, ma il campo vero non lo vedono; hanno davanti a loro schermi bidimensionali, riguardano le immagini sia a velocità normale che rallentata, e questa, per definizione, è già un’alterazione della realtà. Mancano, insomma, della percezione multisensoriale che l’arbitro sul campo al contrario possiede, l’essenza di un gioco di contatto.
Eccolo, uno dei punti chiave: nel dubbio, più on field review, ovvero più verifiche video da parte dell’arbitro in campo, perché per lui il video è un ausilio in più rispetto a ciò che ha visto, sentito, percepito, mentre chi sta in sala Var ha solo il video e non può contare sul resto.
Salvare il Var
Non basta, ma può aiutare. Così come può aiutare il meccanismo del challenge, ovvero il cosiddetto Var a chiamata da parte degli staff tecnici, che esiste da noi nel basket e nel volley, una prassi comune e regolamentata in tutti gli sport americani.
A cosa può servire? A eliminare la dietrologia su alcuni episodi la cui valutazione può essere stata frettolosa, quelli che generalmente conducono alle polemiche sul mancato intervento. Mancato intervento che, in realtà, molto spesso è figlio di un controllo comunque effettuato, ma non attraverso un’analisi da anatomopatologi del frame, quelle che poi una quisquilia potenzialmente irregolare la trovano perché uno sfioramento di qualche millesimo di secondo al rallentatore di secondi ne può durare anche due, un’eternità, abbastanza per scatenare l’inferno da parte di chi al Var va a fare le pulci, figurarsi per i tifosi che – tutti – amano sentirsi vittime di un qualche tipo di complotto.
Il challenge toglierebbe qualche alibi, ma andrebbe normato per far sì che una partita non duri all’infinito, e a quel punto ne verrebbero messe sotto accusa le regole d’ingaggio. Del resto, è esattamente ciò che sta accadendo ora al famigerato protocollo Var, quello che determina dove e per cosa si può intervenire, chi può farlo e come.
«Non si può imputare al mondo arbitrale l’applicazione di un protocollo», sostiene Antonio Zappi, attuale presidente degli arbitri, che rimpalla tutto all’Ifab, l’organo preposto alle modifiche regolamentari. Però il lamento è comprensibile: perché questo sì e questo no? E perché, se anche ci si accorge di qualcosa che evidentemente è da sanzionare, non si può avere l’autorità di intervenire per sanarlo?
Alla base resta il conflitto tra l’applicazione pedissequa di regolamento e protocollo e la loro interpretazione, quella che piega alcuni dettami allo spirito del gioco. Si tratta dello stesso conflitto sotteso all’amministrazione della giustizia da parte dei tribunali, perché la legge è uguale per tutti, ma la sua applicazione non di rado differisce, perché l’obiettivo dell’uniformità di giudizio, quando si parla di individui, è asintotico.
E non c’è on field review che tenga, ma forse solo un passo avanti di tipo culturale può aiutare la tecnologia: non è ciò che il Var può fare per il calcio, ma ciò che il calcio può fare per il Var.
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