Il gol fantasma di Geoff Hurst nella finale dei Mondiali di calcio del 1966, che ha aiutato gli inglesi a vincere la partita, probabilmente, non era gol. Tiro, traversa, palla sulla linea di porta e respinta del difensore. L’aveva vista così anche l’arbitro: salvo farsi convincere a cambiare decisione dal guardalinee.

Col Var, la storia di quell’episodio sarebbe stata un’altra. Il gol di mano a Messico ’86 con beffa al portiere Shilton, che Diego Maradona ha giustificato come vendetta celeste per l’attacco alle isole Malvinas – e soprattutto con un secondo gol che ha trasceso il plausibile – oggi non sarebbe stata la mano di Dio, ma solo un episodio da espulsione.

Le incommensurabili discussioni sugli errori arbitrali – la leggendaria moviola – ha però creato una prassi talmente consolidata da ingenerare effetti curiosi: una parte non trascurabile del mondo del pallone ha messo in dubbio la bontà dell’innovazione tecnologica nell’arbitraggio. 

Dopo decenni passati a scannarsi davanti alle telecamere, l’ineluttabilità della fallacia umana ha impedito di coltivare pensieri alternativi. L’arbitro era giudice, l’ultima parola spettava a lui, giusta o sbagliata che fosse, e nulla avrebbe cambiato lo stato di cose. Dolo a parte, come è stato negli anni in cui imperversava la tesi della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle grandi squadre.

Una Resistenza sbagliata

A contrastare rivoluzioni regolamentari pensate per diminuire o eliminare gli errori di giudizio negli sport più popolari, si è sviluppata poi una posizione romantico-etica. Secondo la quale il gioco è un fatto umano, nato con arbitri umani che per definizione possono “fallare”.

Sostituirli con un occhio meccanico non lo avrebbe solo privato di una sua narrativa legata a episodi controversi, ma l’avrebbe snaturato, agendo da apripista per uno svuotamento progressivo del fattore antropico. Come dire: si parte col giudice elettronico, si prosegue con l’adozione di attrezzature dotate di intelligenza artificiale più o meno invasiva (scarpe “intelligenti” che trasformano gli impatti in energia di spinta, racchette da tennis che raccolgono e analizzano dati e compensano impatti sbilenchi, biciclette che assistono la pedalata) e si finisce, a forza di innovazioni a fin di bene, col mettere in campo automi al posto di atleti di carne.

Un pot-pourri di argomenti eterogenei ma di facile presa sul pubblico e sugli stessi atleti: negli anni Novanta, il numero uno del tennis Jim Courier era stato solleticato su una chiamata sbagliata che avrebbe potuto fargli vincere un match, poi perso. Aveva risposto così: «L’arbitro è parte del gioco. Se io sbaglio un dritto facile, il giudice di sedia non mi viene a criticare: non capisco perché lo dovrei fare io».

L’idea che l’arbitro contribuisse allo snodarsi dell’evento, esattamente come rimpallo, era diffusa. Zinedine Zidane, asso della Juventus e della nazionale francese, alle prime avvisaglie di introduzione della tecnologia aveva accolto l’innovazione come «una possibile fonte di confusione». 

Michel Platini gli faceva eco, quando ancora si era proposto unicamente di piazzare telecamere sopra la traversa per scongiurare altri gol fantasma come quello del ‘66 : «Sono totalmente contrario. Il calcio deve rimanere umano. Piuttosto, aumentiamo gli arbitri: con cinque giudici in campo, abbiamo fatto esperimenti e rilevato che gli errori si azzerano».

Questo, finché la tecnologia ha mostrato con tale veemenza che un altro mondo, non più discrezionale, era possibile da rendere non più rinviabili le riforme. Il calcio, il retrogrado pallone sui cui accadimenti dubbi si è costruito pure un genere giornalistico e di intrattenimento – l’autopsia in video della partita e i processi via etere, da Biscardi in giù (o in su) – ha continuato a fare resistenza oltre ogni limite, se si considera che già nel 1986 gli Stati Uniti avevano introdotto l’instant replay nella National football league.

Una serie di telecamere piazzate in punti strategici per risolvere dispute su azioni troppo veloci per essere carpite dallo sguardo dei referee. Giorni fa, la Major league baseball – la lega professionistica di baseball Usa – ha sdoganato, dopo 150 anni di storia, l’uso di un aggeggio elettronico per permettere al catcher, il ricevitore, di segnalare al lanciatore che traiettoria dare alla palla. La norma è passata perché l’uso dei segnali convenzionali con le mani, ultimo baluardo analogico, era diventata impossibile da mascherare agli avversari per la quantità di schermi privati e pubblici disseminati intorno al diamante. 

Invece il Var, il Video assistant referee, ha fatto il suo esordio, lemme lemme, ai Mondiali di calcio nel 2016 e, nel campionato italiano, è stato adottato solo a partire dal 2017. Facendo del gran bene, perché ha contribuito a correggere una carrettata di decisioni scorrette.

Per gli amanti della polemica, oltretutto, non ha placato le risse verbali. Anzi, semmai ha introdotto un nuovo sottotipo, quello della intemerata sul corretto rapporto tra uomo e macchina. Nella partita di serie A dello scorso 3 aprile tra Juventus e Inter, si è consumato una sorta di stress-test del dispositivo: dopo un fallo in area non visto, il Var è intervenuto per convincere l’arbitro a concedere il rigore. Çalhanoğlu si è fatto respingere il tiro da Szczęsny. Sul rimpallo Danilo ha fatto autogol ma, secondo l’arbitro, era carica irregolare di Çalhanoğlu.

Il Var è intervenuto ancora a emendare la decisione dell’arbitro. Gol convalidato? Macché: rivedendo l’esecuzione, l’arbitro tecnologico si era accorto di una contestuale invasione e ne ha ordinato la ripetizione. Anche nell’ultima sfida di Coppa Italia tra Inter e Milan l’arbitro è rimasto nel dubbio fino all’ultimo, prima di dare retta al richiamo del collega del Var e annullare un gol a Bennacer.

Sarà macchinoso, sarà imperfetto ma il Var ha reso il calcio un posto più equo rispetto ai tempi in cui un signore in calzoncini neri era costretto a corse a perdifiato dietro superatleti lanciati a tutta velocità e caduti dopo un contatto, in circostanze troppo rapide per consentire decisioni ponderate.

Oggi abbiamo a disposizione un antibiotico formidabile per debellare le ingiustizie sportive e non possiamo più non accoglierlo, così come non accettiamo più chi propone di sostituire ai farmaci il rimedio della nonna.

Effetti collaterali non dichiarati

Semmai, in maniera meno evidente, la tecnologia ha contribuito a modificare certi connotati dello sport. L’arbitro-persona non è più il giudice monocratico che adotta il suo stile sanzionatorio. E così, magari, un contrasto non fischiato a metà campo – rimasto sotto la sua giurisdizione – se capita in area di rigore, diventa materia da Var. E la medesima condotta viene punita, perché giudicata da un altro arbitro, quello davanti ai monitor. Che formalmente consiglia solo di riguardare l’azione ma, di fatto, condiziona la decisione dell’arbitro in campo. 

In altri sport, le conseguenze sono anche più evidenti. Nel tennis, il passo definitivo in favore della chiamata elettronica è stato uno scandaloso match degli Us Open del 2004 tra Jennifer Capriati e Serena Williams, con una tale quantità di abbagli in favore della prima – evidenziati in tivù dalla tecnologia hawk-eye, “occhio di falco”, ai tempi già disponibile ma non ancora regolamentata – che si è deciso di accelerare e adottarla dal 2006. Il Covid ne ha poi facilitato l’estensione per il controllo di tutti i rimbalzi della palla, pensionando i giudici di linea e tanti saluti alla tradizione.

A voler essere romantici, insomma, forse è vero che neanche l’iracondo genio di John McEnroe si sarebbe potuto esprimere in una delle sue giaculatorie, fosse stato imbavagliato dal giudizio asettico di un computer.

È anche vero che i giudici di sedia del tennis sono diventati dei meri contabili da catasto: il loro giudizio è subordinato a quello della macchina e se ne stanno appollaiati sul trespolo a segnare i punti.

La sorte dei loro colleghi del calcio è differente perché l’arbitro del pallone deve ancora correre. Fischia. Sembra ancora lui il padrone della situazione. In realtà, forse, non lo è più, perché esiste un grado di giudizio superiore. Ma al più questa è faccenda da sindacati di categoria per demansionamento.

C’è poi un altro effetto indiretto, quello sul pubblico. Al tifoso dello sport tecnologizzato si è costretti, talvolta, a negare l’adrenalina dell’esultanza in tempo reale. Si rimane appesi alla visione di uno schermo, in attesa di un responso che arriva da un Grande fratello chiuso in un gabbiotto.

Agli Australian Open del 2017, una partita strabiliante in cinque set tra Roger Federer e Rafa Nadal è finita con un dritto vincente sulla riga. Anzi, no: Nadal si è appellato all’occhio di falco. Federer ha dovuto ricacciare giù la gioia, ficcarsi la pallina in tasca e aspettare. Dopo dieci secondi, il megaschermo ha mostrato il segno lasciato dalla palla. In tutto questo, il pubblico era tramortito: chi aveva festeggiato, tremava. Chi si era sentito perso, si era aggrappato a quell’ultima fiammella di speranza. Palla buona. Game, set and match Federer e gioia differita. Finire così uno Slam è brutto, sì. Ma con una palla giudicata male sarebbe stato meglio?

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