«Sapete quanti giornali in America hanno nello staff un giornalista che si occupa di vino? Due, una volta erano centinaia». È così che la famosa wine writer Karen MacNeil introduce un lungo pezzo a proposito del futuro del giornalismo relativo a questo specifico settore. Un articolo pubblicato online, su Winespeed, che affronta aspetti diversi relativamente a un mestiere oggi più in bilico che mai tra necessità editoriali (tradotto: budget sempre più ridotti) e interesse da parte del pubblico (minore di un tempo).

Nella sua lunga introduzione l’autrice prova a spiegare in maniera chiara la differenza che corre tra “wine critic” e “wine writer”, ruoli a suo dire troppo spesso erroneamente accomunati. Se il primo, figura nata a partire dagli anni Settanta del secolo scorso con l’avvento di Robert Parker e della sua testata Wine Advocate, si occupa soprattutto di assaggiare e di valutare più vini utilizzando una scala numerica e descrizioni spesso troppo simili tra loro, per il secondo «le due cose che contano di più sono le persone e il luogo», architravi di ogni possibile racconto intorno a un vino, «la storia di un vino può esistere solo nel contesto di una cultura».

Accuratezza ed editing

Karen MacNeil racconta quindi della sua trentennale esperienza nel lavorare con le parole, dell’importanza dell’accuratezza, della verifica dei dati e delle affermazioni, in generale del lungo lavoro di editing che precede la pubblicazione di ogni articolo o libro, «gli editor rendono gli scrittori scrittori migliori». Un approccio che da una parte è diventato sempre meno sostenibile economicamente, anche per le testate più grandi, e che dall’altra si scontra con la grande facilità di accesso del pubblico a testi prodotti da persone che con poca o nulla esperienza iniziano a scrivere in rete, quasi sempre non retribuite, sui propri blog.

Un’affermazione, quest’ultima, che personalmente condivido solo in parte avendo proprio i blog contribuito a svecchiare la scrittura del vino e al tempo stesso a formare una nuova generazione di wine writer (di cui credo di fare parte). In questo contesto non poteva quindi mancare un riferimento polemico anche agli influencer, categoria sempre più centrale, a suo dire eccessivamente retribuita, «da cui il pubblico americano riceve sempre più informazioni sul vino».

Infine l’intelligenza artificiale, già oggi in grado di scrivere articoli di ogni tipo su tutte quelle che sono le nozioni del vino considerate come di base. E in futuro? «Se e quando l’intelligenza artificiale diventerà la forma dominante per scrivere di vino, la comunicazione su di esso diventerà un circolo vizioso di informazioni innocue che non significano nulla per nessuno, così privo di creatività e di pensiero che il vino stesso rischia di perdere il suo significato».

È qui che il pezzo di Karen MacNeil diventa memorabile, quando per esempio racconta di aver intervistato un gruppo di produttori di Napa, in California, e di aver chiesto loro davanti a una telecamera “perché il vino è importante”? Non sapevano cosa dire. A qualunque altra richiesta avrebbero probabilmente saputo rispondere senza neanche pensarci, o quasi: informazioni sull’andamento climatico di una specifica annata, sulla macerazione del cabernet sauvignon o sul tipo di rovere usato per la maturazione di uno dei loro vini.

Invece zero, di fronte a una domanda così ricca di significati nessuno era davvero in grado di dire qualcosa. «I produttori hanno la responsabilità di parlare di vino oltre la semplice scheda tecnica? Le scuole e le università hanno la responsabilità di insegnare il ruolo storico, culturale, filosofico ed emotivo che il vino gioca nella società?».

I wine writer non posso inventarsi nulla, nelle migliori condizioni possibili il loro ruolo è quello di raccontare al pubblico la bellezza, lo stupore e la meraviglia dei vini. O meglio: la bellezza, lo stupore e la meraviglia delle storie dei vini in cui si imbattono. Senza questo genere di racconto il vino rischia forse di diventare solo una bevanda tra le altre.

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