Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Palermo, inverno 1979. Il magistrato più alto in grado del distretto giudiziario è furente. Da qualche giorno riceve rimostranze da personaggi che contano, si lamentano per un’indagine bancaria. C’è un giudice che ha ordinato accertamenti su un imprenditore molto famoso, uno che apre cantieri in ogni borgata, che dà pane e lavoro a migliaia di famiglie.

Il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo convoca nel suo ufficio il consigliere istruttore Rocco Chinnici e, in preda alla rabbia, gli dice: «Voi state rovinando l’economia con queste verifiche della Guardia di Finanza. Carica di altri processi quel Falcone, in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché tanto i giudici istruttori da che mondo è mondo non hanno mai scoperto nulla».

È un’inchiesta affidata a Giovanni Falcone, giudice della sesta sezione penale dell’ufficio istruzione del Tribunale, un magistrato appena trasferito dalla «Fallimentare».

Palermitano, ha quarant’anni, abita solo in una casa di via Notarbartolo, vetrine luccicanti e insegne al neon, pizzerie, cinema, «stuzzicherie», gelaterie, fiorai, parrucchieri, profumerie e colonne di auto che salgono e scendono dalla circonvallazione fino ai platani di via Libertà.

Giovanni Falcone è tornato dopo tredici anni nella sua città e nel Tribunale che produce il bene più prezioso per certi siciliani: il potere.

La giustizia è immobile. Molti delitti restano a opera di ignoti.

Le cause si discutono fra pubblici ministeri e avvocati anche nei corridoi. I processi si decidono la domenica in campagna e d’estate nel «villino a mare». Gli ergastoli sono destinati esclusivamente ai relitti umani, quelli che si trascinano ai margini di una Palermo che è un recinto, popolata da una tribù che sopravvive proteggendo se stessa.

La mafia? «Non esiste, è un’invenzione dei giornali del Nord», assicurano i principi del Foro ogni volta che c’è una «sparatina».

Un mafioso che parla? «Il mafioso non parla mai, perché altrimenti sarebbe un pazzo o un uomo morto», rispondono fra citazioni da antologia illustri magistrati.

Nel labirinto del Tribunale di Palermo il giudice Falcone comincia la sua indagine.

Il costruttore sotto inchiesta si chiama Rosario Spatola, è un ex ambulante, ha una fedina penale quasi immacolata, solo una vecchia contravvenzione per vendita di latte allungato con acqua.

Rosario Spatola è un mafioso. A Palermo lo considerano un benefattore.

Ha appena vinto un appalto per 422 appartamenti bandito dall’Istituto Autonomo Case Popolari, il presidente è Vito Ciancimino.

La scrivania del giudice è coperta di assegni. Tutti ordinati per data e per nome. Sulla prima fila ce ne sono undici firmati Gambino Tommaso. Sono tre cugini con lo stesso nome. Uno nato nel 1939, l’altro nel 1934, il terzo nel 1940. Sulla seconda fila gli assegni portano la firma Inzerillo. Per non confondersi, il giudice Falcone dispone gli assegni con cura e comincia a disegnare sull’agenda un albero genealogico.

Le “famiglie” siciliane e quelle d’America

La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana.

In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.

Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le «rimesse» che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 – emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano – vivono i suoi cugini americani.

È la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. È anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.

Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. È una rivoluzione investigativa. Ancora non lo sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.

«Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?», sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della «Cassa di Risparmio per le province siciliane».

Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.

Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni.

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