Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.

La piazza è deserta. Oggi non si passeggia a Corleone. Un vento di tramontana piega i cartelloni dove sono incollate immagini in bianco e nero. Morti inchiodati dentro una macchina. Morti a terra. Morti dietro il bancone di marmo delle «carnezzerie», come chiamano le macellerie in Sicilia. Da un vicolo sbucano Letizia Battaglia e Franco Zecchin, i fotografi di Palermo. Sono arrivati qui per fare una mostra sulle stragi di mafia. Sono soli. Non c’è pubblico. Non c’è un solo abitante di Corleone che si avvicina alle loro foto. Poi vedo Joe Marrazzo, il giornalista Rai che va in giro con il microfono in mano e l’operatore che lo segue a un passo.

Nessuno risponde alle sue domande. Fanno i muti. Sono gli ultimi giorni dell’ottobre del 1979 e, trent’anni dopo l’incontro fra Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa nel paese che i siculo americani al tempo conoscevano come Tombstone – pietra tombale – entro per la prima volta a Corleone.

Il salone da barba, il circolo dei Buoni Amici, la chiesa madre, la rocca del Mascaro, l’ex carcere fra le pale di ficodindia, il convento, le cascate dietro la strada che porta a Prizzi.

Parlo con l’arciprete che è cugino in secondo grado di Luciano Liggio, cerco il nipote di Placido Rizzotto che porta il suo stesso nome, mi accompagnano da un vecchio maresciallo della polizia di Stato. Una ventina di anni prima ha arrestato Salvatore Riina, quello che sarebbe diventato il capo dei capi. Mi racconta come andarono le cose quella notte, alla galleria Aldisio, sopra i serbatoi dell’acquedotto comunale.

Sono tornato a Corleone molte altre volte dopo quel pomeriggio di vento dell’autunno del ’79.

Ho sentito tante voci. Di mafiosi, contadini, di vittime, carnefici, complici.

Un giorno mi hanno indicato un uomo davanti a una scuola. E mi hanno detto:«Quello sarà il nuovo capo mafia del paese». Aveva un grande futuro in Cosa Nostra il professore Leoluca Di Miceli, insegnante alle medie e aspirante Padrino. Ma poi sono cominciate a girare brutte voci su di lui. Soprattutto una: «Ragiona di più con la testa di sotto che con la testa di sopra». Gli piacevano le donne. Il professore non è mai diventato un capomafia

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