Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Cesare Terranova, il primo giudice a mandare a processo per associazione a delinquere la cosca di Corleone.

Quest'uomo che da parlamentare si era prodigato a gridare a tutti che occorreva una più incisiva azione dello Stato per contrastare il fenomeno mafioso, si accingeva ora a ricoprire la carica di capo dell'Ufficio Istruzione Penale del Tribunale di Palermo.

Dichiarava infatti il dr. Aldo Rizzo (udienze del 17.12.82) che, all'epoca era componente del C.S.M. ed aveva diretta conoscenza dei problemi relativi ai trasferimenti dei magistrati, di essere a conoscenza dell'intendimento di Terranova di ricoprire l'incarico di consigliere istruttore dirigente, in quanto ne era stato informato nel corso di un

incontro promosso dal Ministro di Grazia e Giustizia. Terranova sarebbe stato sicuramente assegnato a quel posto, per i meriti professionali che vantava. Il posto veniva infatti assegnato dopo la morte di Terranova al giudice Chinnici che quando il primo era in vita aveva pubblicamente dichiarato che mai avrebbe osato partecipare al concorso insieme al collega.

Era quindi certo che il giudice sarebbe stato assegnato a dirigere l'Ufficio Istruzione Penale del Tribunale di Palermo ed egli non ne faceva mistero e ne parlava pubblicamente nel corso di interviste rilasciate alla stampa.

Terranova appariva dunque come un uomo fortemente determinato a combattere Cosa Nostra che si accingeva ad occupare nel Tribunale di Palermo, il posto più idoneo a condurre la lotta. Siffatte circostanze e la nota abilità e determinatezza nel valutare 1 fatti mafiosi, come dimostrato nel ricordato processo contro i 115, lo rendevano oggettivamente pericoloso per i Corleonesi di cui si era occupato e per tutta la mafia palermitana cui, attraverso i corleonesi che in quel periodo la dominavano, (v. De Carlo) avrebbe potuto risalire.

Un giudice pericoloso

Fu questa pericolosità a ricompattare nel 79 la Commissione ed a far ritenere il Terranova un obiettivo strategico da abbattere, al fine di salvaguardare gli interessi dei Corleonesi e di tutti gli altri clan mafiosi collegati.

Conseguentemente, può fondatamente ritenersi che la causa dell'assassinio del giudice fosse la sua pericolosità e cioè la sua determinazione e capacità di lottare "Cosa Nostra".

Convalida l'espresso convincimento, la considerazione che non sia nemmeno ipotizzabile che questo delitto possa essere stato deciso senza l'assenso dell'organo di vertice della mafia. E' infatti assurdo ipotizzare che un consesso di tal genere, preposto ad una rigida

struttura piramidale di potere e legato ad un rigoroso controllo del territorio, consentisse autonome iniziative con il rischio di fratture interne o di conquiste di' autonomi spazi che avrebbero inevitabilmente condotto alla sua stessa autodistruzione. Ma nulla è emerso atto a far ritenere che l'omicidio del Terranova e del Mancuso avesse provocato

fratture o dissidi all'interno dello schieramento mafioso palermitano.

Pertanto, anche alla stregua degli argomenti di ordine logico esposti, basati su nozioni di comune esperienza, più ragionevolmente ritenersi che il deliberato omicidiario fosse stato adottato dalla commissione per le ragioni illustrate e ad un tempo prestarsi credito alle dichiarazioni rese dai pentiti in ordine alla responsabilità della stessa.

Asseriva infatti Cangemi Salvatore che il delitto era stato voluto dalla Commissione "al mille per mille".

Aggiungeva Salvatore Contorno che il delitto era partito dai Corleonesi ma era stato deciso dalla Commissione.

Diceva Brusca Giovanni di aver saputo dal padre Bernardo, componente della Commissione, che il delitto, su richiesta dei Luciano Leggio, era stato "approvato", da tutta la Commissione perché il giudice era ritenuto nemico di Cosa Nostra.

Assumeva Di Carlo Francesco che la Commissione su sollecitazione dei Corleonesi si fosse occupata di Terranova due volte: nei primi del 75 e nel giugno o al principio dell'estate del 79. La prima volta non: aveva autorizzato l'omicidio in Sicilia non ritenendolo conveniente per Cosa Nostra, la seconda l'aveva autorizzato. Francesco Marino Mannoia ricordava che l'omicidio era stato autorizzato dalla Commissione, per come riferitogli da Stefano Bondate e che l'interesse maggiore all'assassinio l'avessero i Corleonesi, Salvatore Riina e Luciano Leggio. Spatola Rosario asseriva che fosse notorio in tutta Cosa Nostra che l'omicidio fosse stato deciso dalla Commissione su pressione dei Corleonesi.

Può quindi ritenersi provato che il movente del delitto fosse il timore di Cosa Nostra della ripresa, con il ritorno di Terranova al Giudicato d'Istruzione, di una tenace, seria ed incontenibile azione antimafia.

Trattasi di causale certa, in quanto suffragata da validi elementi di prova ed in assenza di qualsiasi altra causale alternativa. E' quindi emersa una causale unica, riferibile con certezza a Cosa Nostra.

La riunione a Favarella

Va preliminarmente chiarito che con l'espressione responsabilità della Commissione, s1 intende riferirsi all'attribuibilità all'intera Commissione della decisione criminale e non alla responsabilità penale dell'organo collegiale.

[…] [Secondo Francesco Di Carlo] L'omicidio del giudice Terranova era stato voluto da Cosa Nostra. La Commissione se ne era occupato due volte. La prima volta avvenne ai primi del 1975. Capo provincia era Gaetano Badalamenti. Tramite Salvatore Riina e Bernardo Provenzano che in sua sostituzione reggevano il mandamento di Corleone, Luciano Leggio faceva infatti pervenire la richiesta di uccidere Terranova, perché lo odiava in quanto aveva istituito un grosso processo contro i corleonesi mandandoli a giudizio davanti alla Corte d'Assise di Bari e perché in qualità di vice - presidente della Commissione parlamentare antimafia "si era preso il lusso di volerlo interrogare".

La Commissione respingeva la richiesta e Badalamenti spiegava al Riina che la situazione in cui versava in quelle circostanze di tempo Cosa Nostra ostasse all'omicidio, in quanto erano appena usciti di galera tanti mafiosi e tanti altri stavano rientrando dal soggiorno obbligato e se avessero ucciso Terranova, che in quel momento faceva parte delle istituzioni nazionali, avrebbero provocato un ulteriore pandemonio, con il rischio di andare tutti nuovamente in galera o al soggiorno obbligato. Pertanto, invitava Riina dire al compare "che almeno prendiamo un po ....... e poi si vede. Oppure se avete urgenza di farlo, fatelo fuori dalla Sicilia".

La richiesta di Leggio era stata comunicata dal nipote Francesco Paolo Marino che era stato affiliato alla mafia per consentire allo zio di far conoscere le proprie volontà. Come al solito anche questa riunione fu tenuta alla Favarella ove aveva accompagnato il Brusca ed il Riina. Andando via dalla Favarella, Totò Riina era furibondo, sia perché era stato messo in minoranza, sia perché Badalamenti gli aveva dato quella risposta , tanto che esclamava: «dice che ce lo dobbiamo fare fuori dalla Sicilia? Ci facciamo vedere che lo facciamo dovunque noi».

Poiché a Riina era noto che egli frequentasse Roma ed ivi disponesse di un alloggio gli chiedeva come "erano situati (combinati) a Roma e se avessero una base per potervi depositare le armi ed ospitare l'eventuale Killer, se egli conoscesse la città e fosse in grado di guidare la macchina (da utilizzare per l'omicidio). Il Collaborante rispondeva positivamente ma dopo qualche mese Riina lo informava che per il momento si dovesse fermare tutto in quanto stavano progettando di far evadere Luciano Leggio.

La Commissione tornava ad occuparsi del Terranova nel giugno o al principio del' estate del 79. Il capo provincia non era più Badalamenti ma Michele Greco e facevano parte della Commissione capi - mandamento di nuova istituzione, fedeli a Riina, quali Pippo Calò e Ciccio Madonia.

La riunione si teneva alla Favarella e tutti davano parere favorevole (all'assassinio del giudice). Egli vi accompagnò il proprio capo - mandamento Bernardo Brusca. Nella tenuta notava la presenza, oltre al Brusca, di Totuccio Inzerillo, Stefano Bontade, Michele Greco, Totò Riina, Saro Riccobono, Ciccio Madonia, Nenè Geraci, Peppino Farinella. Giuseppe Chiaracane. Fu Bernardo Brusca e Totò Riina ad informarlo della decisione adottata

dalla Commissione quando, alla fine della riunione, si rivedevano. Riina diceva "finalmente ....... questa volta gli facciamo vedere".

I detti del Di Carlo sono, per quanto già detto, intrinsecamente attendibili e, per quanto si dirà , estrinsecamente attendibili. Li rendono tali, relativamente all'odio che Liggio nutriva verso il magistrato ed alla sgradita vista dal mafioso ricevuta, la documentata reciproca animosità che tra i due uomini sussisteva e le parole della sig.ra Giaconia e di

tanti collaboratori, come già in precedenza diffusamente illustrato.

Riscontrano la pretesa appartenenza del di Carlo alla famiglia mafiosa di Altofonte, le analoghe dichiarazioni rese da Brusca Giovanni.

Quanto successivamente affermato sulla tenuta "La Favarella" appare invece riscontrato da speculari dichiarazioni rese da altri pentiti. Pertanto, devesi ritenere certo che la Commissione si riunisse nella vasta e comoda tenuta di Michele Greco.

[…] Ma l'omicidio che il clan dei Corleonesi avrebbe potuto consumare fuori dalla Sicilia non veniva mai commesso. L'omicidio veniva commesso a Palermo, a pochi metri dall'abitazione della vittima.

A detta del Di Carlo, l'eccidio avvenne a Palermo non per una disobbedienza alla Commissione, sibbene per una modifica apportata dallo stesso organismo, a giugno o all'inizio dell'estate del 79, alla delibera adottata nel 75.

Ancora una volta le parole del collaboratore essendo del tutto coerenti con le regole che vigevano in Cosa Nostra, appaiono sul piano logico riscontrate. Ulteriori riscontri si ravvisano nell'obiettiva circostanza che all'omicidio non siano seguiti contraccolpi in Cosa Nostra in danno di chicchessia per violazione delle regole del criminoso consesso e nelle concordi affermazioni fatte da tutti i pentiti esaminati che asseriscono che il fatto di sangue fosse stato deliberato dalla Commissione.

Può quindi ragionevolmente concludersi che il Di Carlo sia attendibile.

Unitamente a queste dichiarazioni vanno valutate altre due convergenti circostanze cioè che il delitto rientrava in un interesse strategico di Cosa Nostra e che la sua causale era riconducibile alle funzioni tutorie della Commissione.

Pertanto, alla stregua dei predetti elementi è fuori dubbio che l'eccidio per cui è processo fosse stato deliberato dalla Commissione provinciale palermitana di Cosa Nostra.

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