Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Cesare Terranova, il primo giudice a mandare a processo per associazione a delinquere la cosca di Corleone.

Il giudice dal 72 al 79 aveva abbandonato la magistratura in quanto per ben due legislature era stato eletto al Parlamento nelle liste del P.C.I. Aveva continuato ad occuparsi di mafia in qualità di componente della competente Commissione Parlamentare , ma da politico e non da organo operativo, ed in quanto tale, dal 72 al 79 aveva solo parlato di mafia nelle innumerevoli interviste concesse alla stampa, ma nessuna attività concreta aveva potuto svolgere contro "Cosa Nostra". In quel periodo non aveva costituito pericolo per alcuno. Ecco perché, come ha asserito il Di Carlo, la Commissione di Cosa Nostra nel '75 negava a Riina l'autorizzazione a sopprimere in Sicilia il magistrato.

Negli anni precedenti si era però distinto nella lotta alla mafia e del fenomeno criminoso era esperto e preciso conoscitore, tanto che le sue inchieste avevano inferto duri colpi al clan dei corleonesi (v. sentenze - ordinanza emessa dal G.I. del Tribunale di Palermo il 14.8.65).

Scaduto il secondo mandato parlamentare non si era più candidato alle elezioni ed era rientrato in magistratura, alla Corte d'Appello di Palermo. Era però noto che -da li a poco- gli sarebbe stato assegnato il posto di consigliere istruttore del tribunale di Palermo.

Il rientro in magistratura faceva così seguito ad una intensa attività politica contraddistinta da iniziative contro la mafia adottate in qualità di vice -presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e da una costante opera di informazione attraverso continue interviste rilasciate alla stampa, della pericolosità del fenomeno mafioso di cui aveva perfetta conoscenza.

L’ordinanza contro la cosca di Corleone

Nella sentenza-ordinanza ricordata, disegnava infatti con incredibile precisione ed aderenza alla realtà, la struttura, il funzionamento, le strategie, gli obiettivi, i condizionamenti ambientali della mafia e forniva la chiave ermeneutica di valutazione degli elementi di prova nei processi di mafia.

Scriveva Terranova: "La mafia è una realtà viva ed operante, della cui esistenza, in mancanza di prove documentali o di testimonianze ampiamente rivelatrici, si ha la certezza attraverso le ricorrenti catene di delitti di sangue, il raggiungimento di inesplicabili posizioni di prestigio da parte di sconcertanti personaggi, privi, in apparenza, di qualsiasi attributo positivo, o arricchimento tanto repentino quanto misterioso di individui assurti rapidamente da modesta condizione al rango di facoltosi possidenti, commercianti o imprenditori. L'agghiacciante documentazione di delitti commessi nel corleonese, oltre che nel capoluogo e nella Provincia, spesso rimasti impuniti, costituisce una incontestabile dimostrazione dell'esistenza della mafia. Ancora oggi si continua a parlare di vecchia e nuova mafia, per attribuire alla prima una funzione addirittura di equilibrio o comunque positiva nella società al posto o ad integrazione dei poteri carenti dello Stato, alla seconda invece i caratteri di una delinquenza prova di scrupoli, spietata e sanguinaria, del genere derivato alla prima. E si arriva persino a parlare di mafia "buona", in contrapposizione con la mafia "cattiva" come di un fenomeno di costume, da guardare con indulgenza e comprensione e da non confondere con la delinquenza, di un fenomeno del quale si debba essere fieri come di un privilegio non diviso con altri. Purtroppo tali atteggiamenti pervasi di vieto sentimentalismo e di malcelata simpatia verso la mafia, a volte autorevole, spesso camuffati sotto il comodo pretesto della difesa dei valori morali e spirituali della Sicilia, così invece ingiustamente oltraggiati, non si risolvono in una remora agli sforzi compiuti per risanare la nostra società dalla cancrena che la corrode. Bisogna guardare al fenomeno per quello che è nelle sue attuali manifestazioni: una aberrante forma di delinquenza organizzata, particolarmente pericolosa e dannosa per le sue capillari infiltrazioni nella vita pubblica ed economica, per le ricorrenti esplosioni di sanguinosa violenza, per la oppressione soffocante esercitata nei più disparati ambienti e settori, delinquenza organizzata, che in un piccolo centro come Corleone ad economia prevalentemente agricola può arrivare a condizionare e a controllare tutte le attività della comunità. Si deve, pertanto, sottolineare, con piena aderenza alla realtà mettendo da parte fantasie e romanticheria del passato che la mafia non è concetto astratto, non è uno stato d'animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o famiglie" o meglio ancora "cosche" che sono automaticamente attive ed operanti, per il fatto stesso della loro esistenza, diretta alla realizzazione di un programma delittuoso, attraverso l'esecuzione quanto meno di quei tipici reati mafiosi quali la violenza privata, l'estorsione, il danneggiamento, che per le modalità e i mezzi dell'azione e per l'abituale silenzio delle vittime, non destano quasi mai un particolare allarme sociale né attirano, in maniera energica, l'attenzione dell'autorità. Esiste una sola mafia, né vecchia né nuova, né buona né cattiva, esiste la mafia che è associazione delinquenziale di mafiosità che si manifesta ed agisce sotto molteplici forme, in relazione alle condizioni ed alle situazioni ambientali. Mafia è, in definitiva, associazione per delinquere che è la volontaria unione di tre o più persone diretta allo scopo di commettere delitti, protratta per un tempo determinato o no, la cui durata sia comunque apprezzabile costituitasi per il semplice fatto della adesione di almeno tre persone al comune programma criminoso. L'associazione per delinquere rappresenta una continua insidiosa minaccia alla sicurezza pubblica, un ostacolo al normale svolgimento della vita civile, un motivo di costante allarme per il cittadino. L'associazione per delinquere quando si chiama mafia, costituisce oltre tutto una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica ed economica sono solo in minima parte documentate dalle risultanze processuali.

Al fenomeno mafia si accompagna sistematicamente quello dell'omertà, che è l'atteggiamento di ermetica reticenza assunto da tutti coloro i quali, come persone offese o testi, sono implicati in processi per reati mafiosi, atteggiamento che in questi ultimi tempi, in coincidenza con l'azione intrapresa contro la mafia, tende lentamente a modificarsi. Un muro di impenetrabile silenzio, fatto di paura o di connivenza, si oppone sistematicamente alle indagini giudiziarie, che nonostante l'impegno con cui possono essere condotte finiscono fatalmente per concludersi spesso con l'equivoca formula della assoluzione per insufficienza di prove, di cui la Sicilia detiene un non invidiabile primato. L'omertà è uno dei più solidi pilastri della mafia, perché la forza maggiore del mafioso consiste proprio nella consapevolezza che le sue vittime non oseranno denunziarlo, che gli eventuali spettatori delle sue nefandezza non riveleranno nulla di ciò che hanno visto o sentito e nemmeno di tutto quanto possa avere il più lontano riferimento con la vicenda, consiste in altri termini in quella che può definirsi la certezza dell'impunità.

La mafia come sistema di potere

Oltre che nell'omertà la forza del mafioso risiede anche nella rete di alleanze e protezioni specialmente in campo politico che egli mira e riesce a procurarsi creando, in proprio favore, per motivi più o meno leciti, obblighi di riconoscenza e impegni di amicizia da sfruttare accortamente o nei momenti critici o per il conseguimento dei propri reconditi fini o comunque per ricavarne vantaggi ed utilità. La consapevolezza che nessuno oserà accusarlo e che in suo favore si muoveranno o si prodigheranno influenze occulte ed autorevoli conferisce al mafioso iattanza e sicumera e lo induce ad assumere tracotanti atteggiamenti di sfida almeno sino al momento in cui non venga raggiunto dalla giusta e vigorosa applicazione della legge. E' innegabile che la ricerca della prova sulla appartenenza ad una associazione mafiosa si presenta quanto mai ardua per la estrema difficoltà di acquisire precisi e circostanziati elementi specifici sia per la natura stessa del reato come pure a causa della barriera di silenzio che si frappone tra l'opera degli inquirenti e l'attività delittuosa del mafioso. Pertanto la prova della qualifica di mafioso e perciò di associato pet delinquere deve essere necessariamente ricavata da tutti gli indizi acquisiti, valutati con criterio logico tenendo conto della personalità degli imputati, dell'ambiente che li circonda e dell'atmosfera di oppressione e paura diffusa intorno a loro. La natura indiziaria della prova non toglie nulla alla sua validità ed efficacia, purché naturalmente essa sia fornita di tutti quei requisiti logici e dei riscontri di fatto che conferiscono al! 'indizio validità ed attendibilità.

Particolare rilevanza, nel quadro di una indagine su una associazione mafiosa, deve essere attribuita alla notorietà - che è diversa dalla voce pubblica o dalla/onte confidenziale - vale a dire alla conoscenza generale di determinati fatti "tratta dall'osservazione di infinite manifestazioni o dal riscontro di episodi avvenuti sotto gli occhi di tutti" (G.G. LO SCHIAVO). Notorietà è concetto analogo a quello di pubblicità, nel senso che molte persone conoscono pur non avendo percepito simultaneamente (E. ALTAVILLA). La notorietà è meno del noto ma più della voce pubblica che è un semplice sentito dire: esprime la opinata esistenza di un fatto ricavata dalla evidenza o, meglio, da ciò che appare evidente. La notorietà, pertanto, pur non avendo da sola piena efficacia probatoria costituisce lo sfondo sul quale inquadrare gli indizi raggiunti, che vengono così ad essere opportunamente valorizzati, sì da ottenere un quadro di insieme sufficientemente aderente alla realtà sia dei fatti che delle responsabilità". (sent. cit. in data 14/08/1965 del Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo dott. Cesare TERRANOVA nel processo a carico di LEGGIO Luciano + 114, pagg. 19, 20, 21 e 22) ".

© Riproduzione riservata