Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Cesare Terranova, il primo giudice a mandare a processo per associazione a delinquere la cosca di Corleone.

In sede dibattimentale, l'imputato respingeva ogni addebito, mentre tutti i testi d'accusa confermavano sostanzialmente quanto avevano dichiarato in sede istruttoria. Al fine di verificare la fondatezza degli indizi gravanti sull'imputato, la Corte disponeva accertamenti. Emergeva così:

1) che, dopo la cattura avvenuta nel 1964, Leggio era stato visitato da un medico il 18.5.64 e trovato con "polso a 108 battiti". Rivisitato era stato giudicato in grado di rendere l'interrogatorio;

2) che nel verbale di interrogatorio del 18.5.64 non era riportata alcuna annotazione relativa alla paternità del Leggio, bensì la rituale indicazione di fu Paolo e fu Palazzo Maria;

3) che nei verbali di interrogatorio reso dal Leggio davanti alla Corte di Assise di Bari non risultava annotata alcuna frase offensiva rivolta al giudice Terranova.

Esaurita l'istruttoria dibattimentale la Corte il 2.2.83 assolveva l'imputato dai delitti ascrittigli per insufficienza di prove.

Interponevano appello il P.M. e l'imputato.

A giudizio del P.M. certi elementi di colpevolezza erano:

1) l'univoca causale emersa consistente nell'odio profondo ed inestinguibile che il Leggio covava contro il giudice Terranova;

2) specifici episodi da cui l'odio predetto traspariva, costituiti:

a) da una lettera allegata agli atti, rinvenuta in una carpetta dello studio del Terranova, scritta dal carcere da Leggio alla sorella, ove affermava: "mi preoccupo che il giudice Terranova sa che il suo ordine di restrizione influirà negativamente sulla mia salute: prima ne proverà piacere, poi, per avere maggiore soddisfazione sarà tentato di aumentarla per aggravare il più possibile e compromettere così definitivamente la mia salute, la mia vita, il mio sistema nervoso, perché sarà facile di perdermi con il suo intervento, con il suo potere";

b) dall'episodio verificatosi in carcere quando Terranova ordinava di portare al suo cospetto Leggio in barella;

c) dall'episodio verificatosi davanti alla Commssione antimafia quando Leggio aveva tenuto fisso il suo sguardo su Terranova ed era uno sguardo di odio personale;

d) della nota della Criminalpol della Puglia relativa alle frase del Leggio diretta al Terranova, definito tronfio e volgare nazista;

e) dal fatto riferito nel corso di una intervista dal magistrato, relativo all'avvertimento fattogli da un detenuto di guardarsi da Leggio;

f) dalla lettera anonima pervenuta al giudice, dopo aver emesso, nella qualità di Presidente del Tribunale, ordine di custodia precauzionale nei confronti del Leggio, in cui si formulavano gravi minacce e si parlava di funerali;

3) dall'interesse di Leggio e di tutta la sua fazione mafiosa ad eliminare un uomo che si accingeva ad occupare il posto di capo dell'ufficio istruzione penale da dove era ovvio avrebbe ripreso la lotta contro la mafia in genere e contro la fazione dei liggiani che in quel periodo costituiva la fazione prevalente;

4) dalle rivelazioni di Giuseppe Di Cristina.

La Corte analizzava i singoli motivi di appello, rilevando:

1) relativamente all'episodio avvenuto nel 1964 nel Carcere dell'Ucciardone di Palermo, che nel verbale di interrogatorio acquisito agli atti del processo apparivano documentati elementi di segno contrario a quelli narrati dalla Sig. Giaconia e dallo stesso Terranova nelle interviste concesse alla stampa, in quanto le generalità dei genitori del Luciano Liggio vi figuravano annotate.

Era quindi da escludere che il Terranova avesse fatto scrivere al Cancelliere la frase "non sa di chi è figlio" mortificando così profondamente il detenuto;

2) relativamente alla lettera dall'imputato scritta alla sorella, che trattavasi di uno scritto con cui il Leggio chiedeva alla donna di non richiedere più permessi per i colloqui e da cui non emergeva odio o propositi di vendetta bensì una profonda irritazione;

3) relativamente all'episodio avvenuto nel corso del processo davanti alla Corte d'Assise di Bari, che non appariva provato da alcunché non risultando riportata la frase oltraggiosa nei verbali di causa;

4) relativamente al biglietto pervenuto al Terranova nel 1971, che non era possibile ravvisarvi un odio tanto grande da far maturare in maniera irrevocabile una decisione di morte;

5) relativamente all'arresto del Leggio a Milano, che essendo stato effettuato dalla guardia di Finanza e non dai C.C. quanto dichiarato alla stampa dal Terranova non poteva considerarsi elemento univoco;

6) relativamente allo sguardo che il Leggio, nell'occasione della visita avuta nel carcere di Parma dalla Commissione parlamentare antimafia, avrebbe lanciato al Terranova, che trattavasi di impressioni soggettive variamente interpretate, avendo la signora Terranova parlato di sguardo di odio personale ed il giudice di sguardo "voluto" ed "intenzionale";

7) per quel che riguarda l'avvertimento di guardarsi dal Leggio fatto da un detenuto al Terranova, che la mancata indicazione della "fonte" della notizia ostasse alla formazione di un inequivoco convincimento, specie in considerazione del fatto che nessuna precauzione risulta avesse adottato il giudice né sul momento, né successivamente.

8) per quel che riguarda l'interesse del Leggio ad eliminare Terranova per paura che, assumendo l'incarico di dirigente l'Ufficio istruzione Penale, come appariva quasi certo, riprendesse la lotta alla mafia con il consueto rigore, specie contro la fazione dei leggiani che trattavasi di mera presunzione, non suffragata da riscontri probatori;

9) quanto agli indizi desumibili dalla c.d. "confidenze Di Cristina" che i motivi d'appello non eliminavano le ragioni di dubbio sulla loro attendibilità, in quanto non solo erano inficiate da imprecisioni, contraddizioni, lacune, ma erano anche prive di appaganti riscontri. Non risultava infatti certo se Di Cristina avesse dato come sicuro o come probabile l'assassinio del Terranova e se la notizia l'avesse appresa da propri infiltrati nel clan dei corleonesi o da altri.

Rilevava ancora la Corte che né le dichiarazioni predette né il complesso delle indagini seguite al duplice omicidio chiarivano attraverso quali canali ed in quali circostanze il Leggio avesse conferito il mandato ad uccidere.

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