Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Giovanni Falcone è un bersaglio mobile. I mafiosi seguono tutti i suoi movimenti, decodificano i segnali a favore o contro il giudice che s’incrociano al Palazzo di Giustizia, fanno attenzione alle mosse politiche di Roma sul maxi processo. È una partita a scacchi. Lui e Paolo Borsellino sono appena tornati dall’Asinara dove li hanno trasportati dopo le uccisioni di Cassarà e Montana. «Motivi di sicurezza». Un commissario informa il consigliere Caponnetto che c’è un piano per ucciderli. Il trasferimento è immediato, in elicottero.

Per due settimane sono reclusi come detenuti fra le mura del penitenziario dell’isola. Qualche mese dopo l’amministrazione penitenziaria recapita una fattura all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, 415.800 delle vecchie lire a testa per il vitto e l’alloggio nel supercarcere. Un «regalo» dello Stato al pool antimafia. «Ni vippimu ù vinu ma ù paammu», ce lo siamo bevuti il vino ma l’abbiamo pagato caro, ripete quando è in vena di scherzare Paolo Borsellino ricordando il conto presentato dal ministero di Grazia e Giustizia.

Alla fine dell’estate 1985 Totò Riina è latitante da sedici anni, Bernardo Provenzano da ventidue. Non li cerca nessuno. Palermo è spaccata, la città ha due volti, voglia di cambiare e voglia di mafia. Il maxi processo sta per iniziare e ci sono giudici che si defilano. Nessuno vuole fare il presidente. S’inventano malattie, problemi di famiglia. Nessuno vuole guai. Si fa fatica a trovare un presidente per il processo alla mafia. È la mattina del 10 febbraio del 1986 quando si apre il dibattimento. Sono 474 gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con loro, sono finiti all’Ucciardone anche l’ex sindaco Vito Ciancimino e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Il presidente della Corte di Assise è Alfonso Giordano, viene dal civile, è una grande sorpresa. Il giudice a latere è Pietro Grasso, i pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino.

«Silenzio, entra la Corte», intima in prima pagina il Giornale di Sicilia. Un titolo perfetto per il processo dove per la prima volta ci sono mafiosi che vogliono parlare. Per diciotto mesi a Palermo non vola una mosca. Neanche uno scippo. Il 16 dicembre 1987, dopo 35 giorni di camera di consiglio, 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassa la sconfitta più dura della sua storia: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere.

«La mafia è in ginocchio», dichiarano trionfalmente i ministri di Roma. La notizia delle condanne al maxi processo di Palermo fa il giro del mondo. È la vittoria finale – l’unica, come vedremo – di Giovanni Falcone, quello delle «comiche figure» e delle «sceneggiate» descritte sul foglio cittadino. Tutti sono euforici. Tutti sono sicuri che ormai la mafia è alle corde, ferita mortalmente.

C’è solo un uomo che non si fa travolgere dalla sbornia e dall’eccitazione del successo: Giovanni Falcone. Sa troppe cose sulla mafia e i suoi complici. Sa che adesso sta per arrivare il momento più difficile. Per lui e per Palermo.

Il matrimonio con Francesca Morvillo

Qualche mese dopo l’inizio del maxi processo – nel maggio 1986 – si è sposato con Francesca. Una cerimonia blindata, in gran segreto con i parenti più stretti. Il matrimonio lo celebra il sindaco Leoluca Orlando, un giovane democristiano cresciuto all’ombra del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Orlando è vicino ai gesuiti, ha alle spalle solidi studi in Germania, un’influente famiglia, è un riformatore cattolico che si scaglia contro i ras del suo partito e avvia una rivoluzione politica e morale che prende il nome di «primavera di Palermo». Gli altri sindaci non avevano mai osato pronunciare la parola mafia. Orlando, al contrario, attacca gli uomini d’onore con tutte le sue forze. A cominciare da Salvo Lima e dal suo protettore Giulio Andreotti. Fa costituire il Comune parte civile al maxi processo, scende in piazza con migliaia di ragazzi che manifestano a favore del pool.

Ma dal ventre di Palermo affiorano i fetori di un potere che non si vuole arrendere. In piazza non ci sono soltanto gli studenti. Arrivano anche gli edili senza più lavoro, i cantieri degli imprenditori mafiosi sono chiusi. Urlano contro i giudici, per le strade innalzano cartelli: «Viva la mafia, viva Ciancimino». In corteo portano a spalla la bara del sindaco Orlando, sfilano con loro sindacalisti, uomini politici, tutta la Palermo di un sottobosco che è legato a doppio filo con chi fa droga e morti. Giovanni Falcone, ancora una volta ha visto giusto. Ci sono state le condanne al maxi processo, ma tira sempre una brutta aria in città. Qualcuno cerca di far tornare indietro Palermo.

Il “pittore” Liggio 

Per caso vengo a sapere che uno degli imputati del maxi processo è anche un pittore. E non un imputato qualunque: è Luciano Liggio. I suoi avvocati raccontano che all’Ucciardone scrive poesie, legge Dostoevskij, studia i filosofi presocratici. E dipinge. Paesaggi di campagna, i tetti delle case della sua Corleone, gli alberi del bosco della Ficuzza. A Palermo gli stanno organizzando una mostra – tutta per lui in una galleria d’arte di via Dante, a due passi dal teatro Politeama. Dopo Palermo, i suoi quadri faranno il giro d’Italia. Roma, Firenze, Milano. Luciano Liggio annuncia che donerà il ricavato della vendita delle sue opere all’ospedale di Corleone per acquistare macchinari per la dialisi. Un boss filantropo. Il vernissage è fissato per il 6 gennaio 1987. Qualcuno però mi soffia all’orecchio che il pittore non è lui, Liggio, ma un suo compagno di cella. Non riesco a scoprire chi è. Dopo qualche anno sarà lui a svelarsi. «Ero io a fare quei quadri», confessa Gaspare Mutolo, mafioso della Piana dei Colli quando si pente. Uno di quei paesaggi esposti tanto tempo fa nella galleria di via Dante, adesso è a casa mia. L’ho comprato da Mutolo. È Monte Pellegrino visto da Mondello. Sul mare scende dal cielo qualcosa che assomiglia a una corona di fiori rossi, in realtà sono i tentacoli di una piovra.

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