Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Mia madre, Margherita, è stata una delle donne più belle che ho visto in vita mia. Aveva lunghi capelli castani, era molto alta e slanciata, con un fisico da modella; guardandola in foto rimango ancora colpita da cotanta bellezza, femminilità e sinuosità. Credo che lei e mio padre avessero avuto da subito una forte attrazione fisica, entrambi affascinati dalla reciproca bellezza.

Mia madre era di origine veneta ed era una giovane molto indipendente. Fin dai suoi diciannove anni, aveva fatto la spola tra la Germania, dove lavorava con il fratello, e Belluno, dove viveva con la madre e di cui era originaria. Delle poche volte in cui mi raccontò il primo incontro con mio padre, non dimenticherò mai la magia d’amore che traspariva dallo sguardo perso nei ricordi. Rari momenti di quiete.

Era scesa a Catania con un’amica per qualche giorno di vacanza. La sera che conobbe mio padre era andata in una rinomata discoteca della movida catanese, il Golden Gate, che si trovava vicino a corso Italia, zona residenziale e cuore pulsante della ricca città, una traversa adiacente alla nostra successiva abitazione. Mio padre era già un ragazzo molto in vista, grazie alla posizione agiata e milionaria della nostra famiglia. A poco più di vent’anni, possedeva una porsche nera ultimo modello. Mia nonna, Francesca Mastrolorito, era un’insegnante rispettata, figlia di un’ottima famiglia borghese, generosa di carattere.

Mio nonno Calogero era un ricco e facoltoso commerciante, aveva una grossa azienda agricola a Lentini (Siracusa) dove commerciava prodotti agricoli e capi di bestiame. La nostra proprietà era una delle più grandi e importanti della zona, mio nonno fu addirittura il primo fornitore di bestiame dello Stato italiano dopo gli anni massacranti del dopoguerra. La nostra proprietà, per questi meriti, era solita ospitare autorevoli cariche istituzionali e giornalisti con relative riprese tv, anche da parte della Rai, a dimostrazione del fatto che eravamo una delle più grandi realtà del settore e di una Sicilia in ripresa dopo anni di povertà e dissesto economico.

La strana Sicilia, Trinacria, con tre gambe che convergono tutte al centro, una senza le altre non potrebbe esistere. Lontane, ma pur sempre vicine. Quella agiatezza economica fece crescere la mia famiglia in condizioni di smisurata ricchezza e lusso, facendo emergere e risaltare ancora di più dei ragazzi (mio padre e i suoi fratelli, mio zio Giovanni e mia zia Clementina) che già si facevano notare per bellezza, temperamento, educazione. Da quella stessa sera in discoteca, mia madre mi raccontò che non ritornò a Belluno. Il loro fu un grande amore, acerbo, e di breve durata.

Mio padre era un uomo di pochissime parole, ma il suo fare, il suo atteggiamento, era sempre molto chiaro ed eloquente. Mia madre, sin da subito fu accolta nella casa dei miei nonni paterni come una quarta figlia, sebbene molto lontana dal nostro mondo. Un inizio come tanti, anzi molto più sfavillante, e poi…

L’inizio della scalata in Cosa Nostra

In quegli anni, la figura di mio padre cominciava a occupare posto nella comunità mafiosa parentale e correlata alle nostre origini famigliari. La sorella di mio nonno, anni addietro, aveva sposato il boss emergente don Ciccio (Francesco) Madonia, dal quale ebbe tre figli, tra cui colui che sarebbe diventato il potente boss Piddu (Giuseppe) Madonia.

Personalmente, crescendo, grazie ai libri di storia e alla cronaca, ho tentato, ho voluto ricostruire le radici della mia famiglia, la realtà nella quale ero immersa e crescevo. Impregnata da un’educazione che, come ho già detto, imponeva il silenzio, e ciò che non si conosceva restava sconosciuto.

Denari, provenienze, faide rimanevano fuori dalla casa dove noi ragazzette crescevamo. Solo nell’adolescenza, che fu tranciata di netto dalla morte violenta di mio padre, compresi le esatte connessioni e sfumature delle nostre origini famigliari e del nostro modo di vivere, non proprio «normale». La verità è che quando nasci, cresci, ti formi, vivi in un ambiente uguale a quello di tutte le persone che frequenti e non solo dei famigliari, diventi un «appartenente», anche se non sei mai definito tale. Un unico modo di essere, di pensare, direi anche di sognare e immaginare, ti plasma.

Non hai altri termini di paragone, l’innocenza dell’età contribuisce a non farti comprendere le diversità, le anomalie, rendendo normale e usuale quel tipo di vita, che di normale, oggi mi è chiaro, nulla ha. Credevo che il nostro modo di ragionare e di comportarci fosse lo stesso delle altre famiglie. E c’era in noi anche un certo compiacimento per tutta quella ricchezza, per il nostro, diciamo, distinguerci. Perché non solo eravamo rispettati, noi Ilardo, nel nostro gruppo di famiglie legate da patti tra «uomini d’onore», ma anche in parte della buona società catanese. Il sangue di quel 10 maggio 1996 sancì per sempre in me la certezza che la nostra vita era quella dei «cattivi».

Fu tremendo scoprire, in seguito, che il cattivo non era sempre ben riconoscibile!

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